Corriere 12.10.16
La sinistra e il tormento della scissione infinita
Dalla nascita a Livorno del Partito comunista fino a Rifondazione. Tutte le volte in cui ha prevalso la rottura
di Pierluigi Battista
N
o, la scissione mai, dicono. Giammai. Neanche per sogno. Ci devono
cacciare. Devono chiamare l’esercito. Eppure nel Pd riaffiora un incubo,
un’ossessione, una maledizione che non abbandona mai la sinistra. Anche
in Gran Bretagna i laburisti blairiani sono tentati dalla scissione con
la maggioranza di Corbyn che ha conquistato il Labour. In Germania i
socialdemocratici sono in crisi nera da quando è spuntata la scissione
di Oskar Lafontaine. La sinistra italiana ha la pulsione della
scissione. Un impulso potentissimo che ha costellato la sua storia di
rotture, separazioni, frammentazioni. Il Pd forse non è sull’orlo della
scissione, come dicono tutti, e si capisce l’insofferenza di Bersani
verso le voci che ne prefigurano l’ineluttabilità. Eppure c’è sempre
quell’ombra. Quel tarlo che corrode da sempre i partiti costruiti su
basi ideologiche, e la sinistra, che lo voglia o no, è la regina della
politica ideologica.
Scissione, in fondo, non è che la versione
secolare e mondana dello scisma. E colpisce i movimenti fortemente
identitari, quelli più portati a una visione trasformatrice,
rigeneratrice, messianica del futuro e meno i partiti più pragmatici. La
Democrazia cristiana, che pure la simbologia religiosa la portava sin
dal nome, non viveva di scissioni, perché al suo interno convivevano
pragmaticamente anime diversissime e addirittura contrapposte tra loro.
Quante differenze tra Moro, Andreotti, Fanfani: ma c’erano le correnti
che erano tanti partiti in un partito e non si separavano mai. Anche
Dossetti era molto ideologico, vedeva nella politica la fonte di una
rinascita millenaristica: lui se ne andò ma i dossettiani rimasero e non
pensarono mai di scindersi dai dorotei, o dagli andreottiani, o dai
morotei, dalla destra moderatissima e clericale e dalla sinistra
cattocomunista del partito. Lo Scudo crociato era la corazza comune, ma
mai con la scissione incorporata. Anche a destra l’ossessione della
scissione colpiva il partito più ideologico di tutti, il Msi, che
infatti visse numerose, violente separazioni, da Ordine nuovo negli anni
Cinquanta, a Democrazia nazionale negli anni Settanta.
Ma la
sinistra è stata l’atmosfera propizia, il terreno fertile di ogni
scissionismo. Il Partito comunista nasce a Livorno da una clamorosa
scissione e subito dovette difendersi dalla smania scissionistica dei
seguaci di Amadeo Bordiga. Il Partito socialista ha avuto una vitalità
scissionistica molto pronunciata. Finita la guerra, il frontismo
filocomunista di Pietro Nenni scatenò la scissione socialdemocratica di
Giuseppe Saragat, che non voleva la subalternità della sinistra
socialista allo strapotere di quella comunista. Poi, con la nascita del
centrosinistra, il socialismo nenniano seppellisce definitivamente la
stagione frontista (grazie anche alla rottura del ’56 con l’invasione
sovietica dell’Ungheria) con il comunismo togliattiano e con l’ingresso
nel governo con la Dc nasce per protesta il Psiup. Si tenta la
riunificazione socialista, Psu, che rimettere sotto lo stesso tetto il
Psi e il Psdi, ma alle elezioni è un tracollo, e il Psiup, dopo una
disastrosa prova elettorale nel 1972, confluisce nel Pci. Ma non basta,
c’è ancora un altro capitolo di questa vertigine scissionistica, perché
una parte di psiuppini, capeggiati da Vittorio Foa, non vuole farsi
riassorbire dal Pci e dà perciò vita al Pdup, che con l’unificazione
(provvisoria) con Il manifesto prende il nome di Pdup per il comunismo.
Inutile
parlare della febbre scissionista dei gruppi della sinistra
extraparlamentare perché uno studioso delle dinamiche politiche a
sinistra degli anni Settanta potrebbe impazzire per individuare qualche
differenza significativa tra Pcd’I linea rossa, Pcd’I linea nera,
Servire il popolo e Stella rossa (forse qualcuno era più stalinista che
maoista, qualcun altro più maoista che stalinista, chissà). Ma con la
scissione del Pci dopo la Bolognina il partito della Rifondazione
comunista che ne è scaturito si è a sua volta ripetutamente scisso,
prima con Diliberto, poi con Vendola (a sua volta sostenuto dagli
scissionisti Pd di Fabio Mussi) da una parte e Ferrero dall’altra, senza
dimenticare Marco Rizzo. Un’ossessione, un’ombra. Un incubo che, si
capisce, si cerca di scacciare via.