Corriere 10.10.16
La grande fuga dei repubblicani
di Massimo Gaggi
Molti
elettori conservatori di tendenze moderate, gli indipendenti e tante
donne di destra che, contrariati o addirittura nauseate, dalla misoginia
di Donald Trump, l’8 novembre decidono di astenersi dal voto per la
Casa Bianca. E, così facendo, non vanno a votare nemmeno per deputati,
senatori e governatori repubblicani, condannando molti di loro alla
sconfitta. È questo lo scenario che terrorizza il Grand Old Party dopo
l’ultimo scandalo piovuto sulla campagna di «The Donald»: lui che
racconta il gusto che prova nell’assalire donne sposate, fare sesso a
tre, prendere una ragazza con prepotenza e senza preamboli, forte della
sua ricchezza e celebrità. È per questo che, dopo la diffusione delle
registrazioni, decine di deputati e senatori repubblicani hanno tolto il
sostegno al candidato del loro partito e molti di loro gli hanno
chiesto addirittura di abbandonare la corsa alla Casa Bianca, lasciando
che a sfidare Hillary Clinton sia il suo attuale vice, Mike Pence. Lui
tiene duro, contrattacca, si gioca tutto nel dibattito della notte a St.
Louis. Dopo il quale, stamattina, i leader del partito che, pur
detestandolo, ancora lo appoggiano ufficialmente, si consulteranno per
decidere.
Ma in queste ore della vigilia l’esodo è stato
imponente. Fino a due giorni fa erano cinque i senatori di destra che si
erano rifiutati di appoggiare Trump. Ma fino al primo dibattito, quello
di fine settembre, i sondaggisti sostenevano che la scorrettezza e la
scarsa popolarità dell’immobiliarista tra le donne e nell’elettorato
indipendente non avrebbe danneggiato gli altri candidati in misura
significativa. Dopo il confronto alla Hofstra University, però, i
sismografi elettorali repubblicani hanno cominciato a segnalare scosse
pericolose. E con le registrazioni la paura è diventata panico. In poche
ore i senatori in rivolta sono diventati 16 (quasi un terzo della
rappresentanza dei conservatori in quest’aula) e tra questi sono
spuntati nomi di primo piano come l’ex candidato alla Casa Bianca John
McCain e il presidente della conferenza dei senatori John Thune, il
numero tre del partito, che ha chiesto al miliardario di lasciare.
Complessivamente
sono una quarantina i parlamentari in rivolta contro il loro candidato
che, però, replica colpo su colpo e invita i suoi sostenitori più leali a
contrattaccare, forte dei primi sondaggi (quelli condotti da
«Politico») secondo i quali la maggioranza degli elettori di destra, pur
condannando le parole di Trump, non vuole che il partito lo abbandoni.
Ecco
perché i due leader del Grand Old Party, lo speaker della Camera Paul
Ryan e il presidente dei senatori, Mitch McConnell, pur condannando con
parole durissime le cose dette da Trump («ripugnanti» secondo
McConnell), per ora non hanno tolto il loro appoggio alla candidatura di
«The Donald». «È comprensibile» spiega un anonimo dirigente del partito
conservatore: «Se gli chiediamo di ritirarsi lui non solo resta, ma si
mette ad attaccare noi anziché i democratici».
Insomma, non
essendo riusciti a frenare la corsa del miliardario populista durante le
primarie, ora i repubblicani si ritrovano col loro fronte spaccato da
una guerra civile: se scaricano Trump perdono il sostegno dei suoi
moltissimi fan e dei radicali, se continuano a sostenerlo perdono fette
essenziali dell’elettorato centrista e di quello femminile.
I
leader vorrebbero uscire dal guado ma non è facile e non solo per via
della spaccatura del loro elettorato: i margini per un eventuale cambio
di cavallo sono ridottissimi, forse addirittura inesistenti. Se Trump
fosse costretto al ritiro si aprirebbe una crisi politico-istituzionale
gravissima, senza precedenti. Anche ammesso che il Rnc, la direzione del
partito repubblicano, fosse in grado di riconvocare rapidamente i
delegati della convention e di arrivare al voto su Pence (scelta per
nulla scontata), sarebbe poi impossibile cancellare il nome di Trump
dalle liste: siamo a un mese dalle elezioni e i termini per le
candidature sono scaduti da tempo, le schede sono state già stampate, in
molti casi (400 mila, secondo gli esperti) i voti per posta sono già
stati espressi. Dovrebbero essere, Stato per Stato, i tribunali a
ingiungere al Segretario di Stato di riaprire i termini ignorando i
vincoli di legge invocando un interesse istituzionale superiore. Ma
probabilmente ogni giudice si regolerebbe a suo modo e i democratici
farebbero ricorso. Toccherebbe, allora, alla Corte Suprema, oggi
semiparalizzata.