venerdì 16 settembre 2016

SULLA STAMPA DI VENERDI 16 SETTEMBRE

PRIMO PIANO
il manifesto 16.9.16
Operaio ammazzato sotto un camion a Piacenza
La tragedia durante una protesta. Abd Elsalam Ahmed Eldanf, 53 anni, egiziano, professore e padre di 5 figli, sindacalista dell’Usb, lavorava come operaio per una società subappaltatrice della Gls
di Raffaele Rastelli


PIACENZA Silenzio. Rabbia. Indifferenza. Quando la pioggia lascia lo spazio a un tenue sole davanti ai cancelli della Gls di Piacenza si potevano trovare solo silenzi, rabbia e indifferenza. Il polo logistico, alla periferia della città, era totalmente isolato. Le vie d’accesso chiuse dalla polizia locale. Pochi solidali e qualche giornalista assiepavano il presidio permanente dell’Usb che continua da ieri sera e che dopo la morte di Abd Elsalam Ahmed Eldanf è inserito dentro a uno sciopero generale di 24 ore che ha coinvolto diversi poli della logistica in tutt’Italia.
Abd Elsalam Ahmed Eldanf, 53enne, molti ci tengono a precisare che in Egitto, suo paese d’origine, fosse un professore e padre di cinque figli, precisazione che non aggiunge nulla al dramma.
Abd Elsalam Ahmed Eldanf era uno degli operai di una delle tante società appaltatrici di servizi per la multinazionale Gls che stava manifestando per i diritti di suoi colleghi. Infatti l’azienda aveva disatteso accordi sindacali per 13 persone. Il picchetto, finito in tragedia, è nato dopo un’assemblea sindacale che ha generato uno sciopero di otto ore e una trattativa, notturna, con l’azienda. Il fallimento della trattativa ha spinto il sindacato e i lavoratori ha trasformare lo sciopero in picchetto. Per evitare che il picchetto bloccasse il viaggio dei camion e gli interessi dell’azienda, raccontano gli operai, un preposto di Gls ha iniziato a incitare il camionista a muoversi e partire. Così il tir si è mosso, ha colpito il 53enne e poi l’ha trascinato per 4/5 metri e infine schiacciato. Un altro facchino è stato ferito, lievemente per fortuna.
Il fratello dell’uomo ucciso, Elsayed Elmongi Ahmed Eldanf, ci dice che «non è la prima volta che ci hanno minacciato per le nostre lotte, spesso ci dicevano andate via, andatevene, non siete i benvenuti». E aggiunge «Antonio Romano è uno dei responsabili della Gls di Piacenza ed è lui che diceva all’autista di andare avanti. Diceva all’autista se qualcuno va davanti al camion schiaccialo come un ferro da stiro. Poi ci penso io. Il camionista così è andato avanti, perché ha ascoltato le parole del responsabile, provando a spaventare mio fratello, però l’ha colpito per poi farlo cadere e schiacciarlo».
Erano circa le 23.45 e secondo il capo della procura di Piacenza Salvatore Cappelleri «quando è avvenuto l’incidente non era in atto alcuna manifestazione all’ingresso della Gls». La ricostruzione della procura tiene fede alle dichiarazioni di una pattuglia dei carabinieri presente in quel momento. La dichiarazione di Cappelleri continua: «Quando il Tir è uscito dalla ditta, dopo le regolari operazioni di carico, ha effettuato una manovra di svolta a destra. Inoltre escludiamo categoricamente che qualche preposto della Gls abbia incitato l’autista a partire. Davanti ai cancelli in quel momento non vi era alcuna manifestazione di protesta o alcun blocco da parte degli operai, che erano ancora in attesa di conoscere l’esito dell’incontro tra la rappresentanza sindacale e l’azienda». Arrivata la dichiarazione, davanti ai cancelli della Gls è stata organizzata la risposta, così è stato reso pubblico un video che mostra come la mobilitazione fosse in corso già dalle prime ore della sera. Il video è stato pubblicato già nel pomeriggio di ieri da molti organi d’informazione e mostrerebbe una realtà diversa da quella della procura. Procura che ha anche acquisito le immagini delle telecamere dell’azienda e che potrebbero dare nuovi particolari.
Nel pomeriggio alcuni camionisti hanno acceso i tir. La tensione si è alzata immediatamente. La logica dei subappalti nel mondo della logistica genera una guerra tra poveri e sfruttati, anche davanti al dramma della morte le aziende chiedono ai camionisti di portare a termine il lavoro. Non esiste nessuna proroga o pausa. Alcuni autisti ci dicono: «Il limite per noi camionisti è 85 km all’ora. Da qui a Napoli ci vogliono circa 9 ore. Ci chiedono di fare il trasporto in 8. Se arriviamo in ritardo anche solo di un quarto d’ora ci tolgono 250 euro dalla busta paga e al terzo ritardo non ci rinnovano il contratto. Ogni anno firmiamo tre o quattro contratti. Così ci controllano e possono lasciarci a casa se facciamo ritardo o protestiamo». Facchini e autisti lavorano per Gls ma sono assunti da diverse cooperative o aziende, hanno diversi padroni, subiscono diverse pressioni, minacce e umiliazioni. I tir non si sono mossi e i picchetti sono ripresi per evitare nuove sorprese.
L’Unione Sindacale di Base ha diramato un duro comunicato secondo il quale «la GLS, e la cooperativa di intermediazione di mano d’opera presente in quello stabilimento e in molti altri e che più volte si è distinta per i ricatti schiavistici che impone ai suoi lavoratori, che di fronte alla probabile perdita di profitto a causa del blocco dello stabilimento, ha aizzato l’autista a forzarlo. Ma la Gls è anche colpevole di aver sempre cercato di sottrarsi agli accordi a cui, a prezzo di dure lotte, l’avevamo costretta per eliminare la precarietà e garantire diritti e umanità nei luoghi di lavoro». Oggi l’Usb ha indetto una manifestazione nazionale a Piacenza, ci sarà uno sciopero di due ore alla fine di ogni turno nel settore privato e uno sciopero di 24 ore nella logistica.
Solidarietà è giunta dalla Cgil alla famiglia del lavoratore e ai compagni di lavoro: «Inammissibile perdere la vita per difendere il lavoro». La Fiom denuncia «il sistema di appalti, sub-appalti e false cooperative che determina sottosalario e lavoro precario senza tutele».Operaio ammazzato sotto un camion a Piacenza.

il manifesto 16.9.16
Il sindacalista Usb: «Non è la prima volta che ci lanciano i tir addosso»
di Andrea Cegna


Riad Zaghdane, dell’Unione sindacale di base, ha seguito la trattativa sindacale e le mobilitazioni dei facchini della Gls di Piacenza.
Con lui abbiamo ricostruito la vicenda che ha portato al picchetto in cui è stato ucciso un lavoratore di 53anni, assunto a tempo indeterminato.
Ci racconti perchè è nata la mobilitazione?
Usb ha sottoscritto un accordo il 31 maggio con l’azienda. Questi accordi non sono stati rispettati. Avrebbe dovuto regolarizzare la posizione di tredici lavoratori precari, invece ha preferito operare otto nuove assunzioni. Parliamo dell’assunzione non a Gls ma alla ditta che ha in appalto il lavoro di facchinaggio. Così mercoledì abbiamo indetto un’assemblea interna. Assemblea autorizzata dalle 20.30 alle 22.00 che si è chiusa con la decisione di proclamare uno sciopero fino a fine turno. La decisione è stata comunicata con pec.
E poi cos’è successo?
In pochi minuti è arrivata la digos, che sapendo che se l’azienda non ci avrebbe incontrato entro poche ore avremmo intensificato il livello della protesta, ha operato e spinto l’azienda stessa a incontrarci. Il tavolo è stato convocato dentro un bar a poche centinaia di metri. Si è presentato il presidente del consorzio Natana Doc, Giovanni Attanasio.
E’ l’azienda che assume i facchini?
No. E’ il consorzio a cui è legata e consorziata l’azienda. Seam Srl è la società che gestisce l’appalto e avrebbe dovuto regolarizzare i 13 operai. Che è consorziata con Natana Doc. Attanasio è presidente di quest’ultima.
E l’incontro?
L’incontro è iniziato alle 22.20 ma già verso le 23.40 ci è parso chiaro che non ci fossero margini reali per un intesa. L’azienda ha dato un’interpretazione strana dell’accordo tra le parti. Accordo che parlava di assunzione dopo il 6 giugno. L’unica disponibilità dell’azienda era ridiscutere l’accordo ma non nell’immediato. Abbiamo immediatamente comunicato ai lavoratori che la trattativa non dava esiti positivi. Così lo sciopero si è trasformato in picchetto. Da quel che ci è stato raccontato dagli operai presenti è in questo momento che il tir, spinto da un preposto dell’azienda ad andare avanti, si è mosso e non si è fermato e Abd Elsalam Ahmed Eldanf è stato travolto ed è morto. Abd era il primo dei lavoratori che stava picchettando la strada, per questo è stato coinvolto lui.
E’ la prima volta che capita di vedere i tir avanzare verso i picchetti?
No, già altre volte siamo stati minacciati da tir che paiono accelerare. Ma di solito noi stiamo seduti a terra e quindi il camionista non si muove perché sa che se dobbiamo alzarci e scappare abbiamo bisogno di tempo ed è pericoloso avanzare. Stavolta Abd era in piedi e così probabilmente l’autista ha reagito in maniera diversa. Certamente è stato spinto e incitato da un preposto aziendale.
L’azienda vi ha detto qualcosa?
Sia l’azienda appaltatrice che la Gls sono scappate. Sono spariti.

Il Fatto 16.9.16
Marco Revelli: “È il delirio di onnipotenza padronale”

Vedremo quanto sarà valutata la vita di questo pover’uomo. Un padre di cinque figli. Non dimentichiamocelo. Ricordiamoci di seseguire l’inchiesta su questa morte.
Marco Revelli, lei da storico e sociologo è sempre attento al lavoro. La tragedia di Abdel Salam sarà dimenticata?
Credo che questa tragedia sia esemplare dei nostri tempi. Dell’arroganza padronale che domina. Da tempo assistiamo a una sconfitta del lavoro e dei diritti. A un appiattimento delle remunerazioni. Ma adesso stiamo andando oltre: gli episodi di soperchieria padronale si sono moltiplicati. È cambiato l’atteggiamento nei confronti dei lavoratori, come se essere la parte debole fosse una colpa. Anche la magistratura è cambiata.
Si riferisce alle dichiarazioni del procuratore?
Sì, anche. Mi ha colpito che poche ore dopo la morte già dicesse che non c’era assolutamente una manifestazione in corso. Come se la mattina dopo la tragedia le indagini fossero già concluse. Anche la magistratura del lavoro mi pare cambiata. Una volta veniva considerata molto attenta ai lavoratori... In un rapporto chiaramente asimmetrico c’era comprensione per le ragioni della parte debole. Ora non più. Prevale una sorta di sadismo sociale. La debolezza, appunto, come colpa. Penso agli operai della Fiat licenziati e condannati in primo grado perché dopo i suicidi di tanti operai avevano messo in scena una rappresentazione provocatoria del suicidio di Sergio Marchionne. Vedremo come finirà il processo. Il settore della logistica, poi, è uno dei meno controllati... Già, qui domina l’esternalizzazione. È una giungla contrattuale. Sono lavori pericolosi e pochissimo tutelati. E c’è la beffa del contratto a tempo determinato, quando poi le imprese falliscono ogni anno e ti lasciano a spasso. Un altro esempio dell’arroganza dei padroni... F.SA

Il Fatto 16.9.16
Misurata: l’Italia finalmente in guerra
risponde Furio Colombo

qui
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ITALIA
La Stampa 16.9.16
La platea partigiana fischia Renzi
 “Giù le mani dalla Costituzione”
Rabbia, fischi e urla. I partigiani anti-riforma contestano il premier
Alla Festa dell’Unità niente sconti per il segretario
di Mattia Feltri

E dire che sembravano vecchi semi infermi con la camicia rossa e il fazzoletto tricolore al collo, innocui nostalgici che avevano ingannato l’attesa con bicchierini di amaro, e buste di plastica in testa per timore della pioggia. Altroché, non è acqua che è piovuta, perché quelli dell’Associazione partigiani erano agguerriti come nelle migliori mitologie. Eccoli i veri monelli della serata, noncuranti delle raccomandazioni ecumeniche del moderatore, Gad Lerner. Hanno fischiato, hanno interrotto, hanno urlato, hanno invitato il presidente del Consiglio ad andare a casa, gli hanno buttato in faccia l’accusa di essere un gran bugiardo. Guarda un po’: ecco chi giocava in casa, non Matteo Renzi, che sarebbe il segretario del partito titolare della Festa, non i suoi sostenitori che le cronache annunciavano in arrivo a centinaia, convocati dal Pd per spuntarla nell’applausometro. Giocava in casa Carlo Smuraglia, ben al di sopra dei suoi novantatré anni, nessun timore, nessuna smania di imbonire l’avversario, nessuna piacioneria. E nonostante il bell’eloquio novecentesco, che talvolta suonava come Tito Schipa in discoteca, il presidente dei Partigiani ci ha dato dentro, non era serata da sconti, ha detto in faccia al dirimpettaio che la sua riforma fa orrore, stravolge lo spirito della Resistenza e dei padri costituenti.
Lì avremmo giurato che Renzi avrebbe riproposto la fascinazione generazionale, utilizzata soltanto poche ore prima in televisione: voi avete fatto la storia, adesso lasciatela fare a noi (sintesi nostra un po’ enfatica). Niente, bassi bassi e schisci schisci perché siamo pur sempre a Bologna, la città dove la memoria, compresa quella più abbellita, non si annacqua. E nemmeno funzionano le ottime tattiche del fair play, che spingono il premier a zittire i suoi quando danno sulla voce a Smuraglia e anzi, basta un sussurro, una protesta da niente e Renzi dice no, non si fa così, rispetto per chi ha un’idea diversa dalla nostra ma a cui siamo accomunati dai valori fondanti. La curva antirenziana ha da ridire anche lì, si alzano buu, si inveisce in forma gutturale. Per chi è abituato alla solidità tetragona del partito - del partito che era, forse - una serata così ha avuto i toni della guerra intestina. E per la cronaca - anche se non doveva essere una partita da televoto - gli applausi al premier sono stati i più scroscianti, i più numerosi, i più compatti, ma era tutto il resto a lasciarci ad occhi sbarrati. Ci sono più diritti, dice Renzi, ed è una sommossa verbale. Il premier le ha provate tutte, le capacità non gli mancano, ma non era cosa. Da matti: neanche il richiamo antifascista ha funzionato in questa festa e in questa città che l’antifascismo se lo mangia a colazione. Volevo sentire qualche parola dall’Anpi, ha detto Renzi, quando il biografo di Giorgio Almirante ha scritto che sono un traditore che va messo al muro. Dove eravate, chiede Renzi. Ma nulla, non riesce ad agganciare le simpatie mancanti, signore su con gli anni saltellanno nervose, indossano t-shirt con la scritta «Costituzione» fatta a brillantini e urlano basta, vattene.
E che doveva succedere? Che Smuraglia, sempre che ne avesse bisogno, ha preso coraggio, si è fatto quasi sprezzante, ha ironizzato sul futuro del premier dopo la (eventuale) sconfitta, e come stessero andando le cose è stato chiaro quando Gad Lerner, col vento in poppa, ha citato Paolo Prodi (uno dei fratelli di Romano), e cioè la riforma come un «bitorzolo sulla Costituzione». E allora restiamo così, ha chiuso Renzi, con questa specie di enorme macchinario arrugginito che sono le istituzioni, se vi piace. Magari non sono la maggioranza, ma gli piace, eccome.

Corriere 16.9.16
Una dinamica che mette in pericolo la legislatura
È sconcertante lo spettacolo che sta offrendo il Pd sul referendum istituzionale
di Massimo Franco


È sconcertante lo spettacolo che sta offrendo il Pd sul referendum istituzionale. Ridurre la Costituzione a materia di scambio per ottenere una legge elettorale più o meno favorevole umilia chi propone questo «do ut des». E finisce per indebolire sia le posizioni degli oppositori di Matteo Renzi, che ancora ieri promettevano di «votare No, per ora, se l’Italicum non cambia»; sia quelle di Palazzo Chigi, che a giorni alterni sembra assecondare la logica ricattatoria. Un comportamento così spregiudicato sminuisce il contenuto del referendum. Di più: lo fa scomparire.
E si politicizza tutto: col rischio di tirare dentro perfino una eventuale sentenza della Corte costituzionale su questa materia. Senza volerlo, il maggior partito di governo continua insomma a scaricare sull’Italia la sua spaccatura interna. Offre a giorni alterni Massimo D’Alema che attacca Renzi, e ieri il premier che ricambia con parole altrettanto dure. Alimenta confusione e veleni referendari. E rinvia non si sa bene a quando una spiegazione corretta e puntuale del merito dei quesiti.
La spirale involutiva che questo comporta è evidente. Lascia presagire uno scontro che, comunque vada a finire, pone un’ipoteca negativa sul governo e sulla legislatura. Per capirsi, diffonde un forte odore di elezioni anticipate. Ma soprattutto, regala un’autostrada all’offensiva del Movimento 5 Stelle. Già lo stallo dell’economia offre ai seguaci di Beppe Grillo occasioni quotidiane di delegittimazione di Renzi. Il minuetto dei Dem tra legge elettorale e referendum fa il resto.
L’ex premier Enrico Letta conferma che sosterrà il presidente del Consiglio e dunque voterà «Sì», nonostante il gelo che divide i due esponenti del Pd.Ma non può non ammettere che quanto sta accadendo «sconta l’errore di avere voluto personalizzare il referendum». Renzi e i suoi alleati puntano il dito sul fronte del «No», accusando M5S, Forza Italia, Lega e Sinistra italiana di «voler mantenere i vecchi privilegi». E Renzi martella sulla tesi che votare sì « riduce i parlamentari, i costi, elimina il Cnel, il pingpong parlamentare e rimette a posto le funzioni delle Regioni». Sa di avere dalla sua parte influenti alleati internazionali, che evocano scenari foschi se non passano le riforme.
Bisogna solo capire se questi allarmi serviranno. L’alleato Pier Ferdinando Casini avverte che «una vittoria del No è altamente probabile». E il M5S accredita un Renzi intento a «svendere la Costituzione al miglior offerente». E evoca patti segreti con «grandi gruppi di investimento stranieri» che «intervengono nei nostri affari interni». Il tentativo è trasformare l’inquietudine europea per una sconfitta del governo, in un’ingerenza inaccettabile, che vorrebbe condizionare il voto referendario. Operazione che rischia perfino di riuscire, vista la grossolanità di alcune prese di posizione.

ma allo storico Massimo Salvadori, dall’inizio appiattito sulle “tesi” del governo, pertinacemene Renzi continua a piacere...
Repubblica 16.9.16
Il senso della riforma oltre i personalismi
La legge Renzi-Boschi non è sicuramente perfetta ma è un buon risultato
di Massimo L. Salvadori


RENZI ha ondeggiato negli ultimi tempi in merito alla decisione che prenderebbe nel caso in cui il referendum sulla riforma costituzionale vedesse la vittoria dei No. Sulla persuasione che a vincere saranno i Sì ha però sempre tenuto fermo. La previsione è una delle arti più difficili e si muove nel regno della permanente incertezza. Allo scoppio della guerra civile americana nel 1861 i sudisti erano convinti che avrebbero vinto nel giro di quindici giorni, nel 1914 le potenze in lotta credevano che la grande guerra sarebbe durata pochi mesi. Venendo alla piccola storia, Cameron era persuaso che il referendum sulla Brexit gli avrebbe consegnato il successo e siamo da tempo abituati a sondaggi che, condotti con i più sofisticati sistemi di rilevamento, ricevono continue clamorose smentite. Per cui è meglio attenersi al vecchio “Chi vivrà vedrà”. Intanto ciascuno si mobiliti per fare vincere la propria parte. Renzi prima aveva seccamente affermato che la prevalenza dei No avrebbe portato al suo ritiro dal governo e addirittura dalla vita politica (fu questo il climax della “personalizzazione”); poi, aderendo ai consigli di chi lo esortava a concentrarsi sui contenuti della riforma e a non collegare l’esito del referendum al suo ruolo di presidente del Consiglio, ha ammesso che da parte sua la personalizzazione è stata un errore; e da ultimo ha ribadito che la sconfitta del Sì comporterà le sue dimissioni. Occorrerebbe in proposito un chiarimento definitivo.
Fatto è che non manca chi è ben deciso a non rinunciare a personalizzare al massimo la battaglia. Lo ha fatto apertis verbis nell’assemblea romana di alcuni giorni or sono D’Alema. Questi — nella pausa che si è dato da ciò che considera il suo compito principale ovvero elaborare le giuste ricette per la sinistra del terzo millennio (che è dato sperare risultino migliori di quelle da lui pensate e perseguite nel tardo secondo millennio e nei primi anni di quello presente) — nella sua strabordante avversione psicologico-politica per Renzi ha dichiarato che la sconfitta del Sì significa di necessità anche la bancarotta del “partito di Renzi, il partito della nazione, progetto dannoso” (e con essa la sconfessione del governo). D’Alema ha osservato che la riforma dell’autoritario Renzi è analoga a quella di Berlusconi, ma non ha ricordato che la sua personale proposta di riforma ai tempi della Bicamerale era semi-presidenzialista e prevedeva un potenziamento dei poteri del capo del governo e dell’esecutivo assente nel progetto renziano. La linea di D’Alema è in piena sintonia con quella del Movimento 5 stelle, della Lega, di Forza Italia e di Fratelli d’Italia: tutti desiderosi di assistere allo spettacolo di un presidente del Consiglio azzoppato dalla sconfitta al referendum o dimissionario. Qui sta la sostanza della “personalizzazione”, che a questo punto è assai più facile deplorare che evitare. Da tante parti si invoca la cacciata del fiorentino, ma nel dibattito incandescente in corso coloro che la caldeggiano hanno perduto la parola circa le prospettive che si aprirebbero agli italiani se si dovesse tornare al sistema che ha dato loro poco meno di 70 governi in settant’anni.
E tacciono inoltre sul grave discredito che — dopo i numerosi progetti di riforma della costituzione finiti nel nulla — cadrebbe sul nostro paese a livello internazionale qualora si mostrasse incapace di voltare pagina rispetto ad un passato che ha visto il succedersi di governi deboli, privi delle risorse per fronteggiare tanti importanti problemi. È ben vero che i vari sostenitori del No promettono, ciascuno a modo suo, che dopo la caduta di questo esecutivo metteranno essi finalmente mano alla grande buona riforma. Ma guardiamoci in faccia: chi può crederci? Sabino Cassese lo ha detto in maniera ponderata e chiara: la riforma Renzi-Boschi, frutto di adattamenti, compromessi e contorcimenti, non è sicuramente perfetta, ma è un buon risultato a cui è vano contrapporre un meglio che è stato impossibile ottenere da questo Parlamento. Vi è, tra i costituzionalisti più decisamente avversari della attuale riforma costituzionale, chi sostiene che non abbiamo bisogno di “governabilità”, ma di “partecipazione e governo democratico”. Ebbene lo spettacolo a cui siamo stati abituati dal passato è l’esistenza di governi incapaci di assicurare la governabilità. Che razza di governi sono quelli privi della capacità di governare? Quale la qualità di una democrazia che poggia su un simile fondamento? Vogliamo tornare al ping-pong tra Camera e Senato, alle “rendite di posizione” che danno ai piccoli e piccolissimi partiti il potere abnorme di far vivere e cadere esecutivi e Parlamenti?

La Stampa 16.9.16
Giovane, consulente Onu, ex renziano
D’Alema pesca un volto nuovo per il No
Stefano Schwarz, 33 anni, è il coordinatore del comitato: “Ma non rottamerò Matteo”
di Giuseppe Salvaggiulo


«Ci sono giovani capaci, forse anche più seri dell’attuale premier. Sono fiducioso». La frase pronunciata l’altra sera in tv non era casuale. Se nella prima assemblea del comitato per il No al referendum aveva radunato i «compagni di strada» del Pci, la fase due di Massimo D’Alema punta sugli under 40 per uscire dalla trappola mediatica vecchio contro nuovo. Come coordinatore nazionale ha scelto un giovane sconosciuto al grande pubblico: Stefano Schwarz, torinese, 33 anni, figlio di insegnanti e nipote di un membro del comitato di liberazione nazionale di Cuneo, studi in scienze politiche a Sciences Po Bordeaux, un’esperienza a L’Indice dei Libri del Mese prima di diventare consulente dell’Onu.
E soprattutto ex leopoldiano: nel 2010, quando era iscritto al Pd, partecipò alla prima edizione della kermesse renziana alla Leopolda. Un po’ più scapigliato di oggi, era intervenuto via skype dal Laos, dove si trovava in missione per le Nazioni Unite. L’esordio era stato cinematografico: «Good Morning, Vietnam». Come parola chiave aveva scelto «glocal». Parlò di cervelli in fuga e società della conoscenza, citando Carlo Petrini e Nichi Vendola e definendosi «fondamentalista delle primarie».
Schwarz ha esordito nella campagna sul referendum il 5 settembre al teatro Farnese. In un’assemblea in cui (ri)comparivano i colonnelli dalemiani degli Anni 90 (Pietro Folena, Vincenzo Vita, Cesare Salvi che saluta la platea con un «compagne e compagni» d’antan), pochi conoscevano quel ragazzo salito sul palco in jeans e camicia bianca, con la Costituzione in tasca. Nemmeno gli archivisti di Radio Radicale, che nella registrazione dell’evento lo chiamano Sforza, storpiandone il cognome.
Ha citato Norberto Bobbio e Vittorio Foa, ha parlato di diritti e povertà. A D’Alema è piaciuto il piglio, antico e moderno insieme. Quando ha detto «dirò tre cose in tre minuti», l’ex premier ha chiosato: «Anche quattro». Ha preso informazioni e qualche giorno dopo ha voluto rivederlo in privato.
«Ma non sono il delfino di D’Alema - spiega - e D’Alema non vuole lanciare un’opa sul Pd. Lui è iscritto al Pd, io sono un privato cittadino. La realtà è che Renzi usa D’Alema come pungiball. Questo può funzionare per il circo mediatico, ma non rappresenta la realtà dell’Italia». Ieri Schwarz è andato a Bologna in treno per vedere il duello Renzi-Smuraglia. Ritorno notturno in auto a Torino. Dopo una breve parentesi a Ginevra, tornerà a Roma per lavorare su due fronti. Uno comunicativo - sarà il volto pubblico del comitato - e uno organizzativo. «Il nostro obiettivo è mettere in rete la galassia di comitati per il No, creando una specie di confederazione». Ormai se ne contano 6 nazionali e quasi 500 in tutta Italia.
Per contrapporsi al renziano «Basta un sì», lo slogan sarà «Io scelgo No». L’enfasi è sul verbo, «per sottolineare la libertà di scelta senza vincoli di partito, quando si cambia più di un terzo della Costituzione». Il profilo di Schwarz serve a sminare la campagna del No dal sospetto di antirenzismo pregiudiziale. «Legittimo essere favorevoli alla riforma - dice - folle dire che noi siamo per la conservazione. Noi siamo per il cambiamento, ma non questo». Per esempio la revisione del bicameralismo non è un tabù, ma «loro l’hanno fatta in modo pasticciato».
Quanto al suo passato alla Leopolda, nega «qualsiasi incoerenza. Due anni fa Renzi mi avrebbe convinto. Era una grande chance di cambiamento, l’ha delusa. Governa con prefetti e commissari e cambia la Costituzione con Alfano e Verdini spaccando il Paese». E dopo? «Non voglio rottamare Renzi, ma lavorarci a condizioni diverse. Votiamo no, poi torneremo attorno a un tavolo».

La Stampa 16.9.16
I dubbi di Confindustria sulla ripresa
Dimezzate le stime del governo
Il centro studi: la crescita sarà dello 0,6%, senza flessibilità serviranno 16 miliardi
Il ministro Padoan: riusciremo a fare meglio. Boccia: ora un patto per il Paese
di Paolo Baroni


«Mi auguro che sul Pil il nostro centro studi abbia torto: ho massima stima di loro, fanno un grande lavoro, ma da italiano faccio il tifo per le stime del governo» confessa il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia. Secondo il «Csc», infatti, l’economia italiana presenta «una debolezza superiore alle attese» e questo produce una nuova revisione al ribasso delle previsioni di crescita, peraltro già molto caute, presentate a luglio: nel 2016 la ricchezza prodotta salirà così solamente dello 0,7 anziché dello 0,8 e quella del 2017 appena dello 0,5 (era allo 0,6%). In pratica, in due anni, il Paese crescerà la metà di quello che aveva previsto il governo: l’1,2 anziché il 2,4%. Nel quadro delineato ieri da via dell’Astronomia a prevalere sono le tinte fosche: la produzione industriale è ferma, il credito alle imprese ancora scarso ed in prestiti alle famiglie in stallo. Anche l’occupazione, che per effetto del Jobs Act è crescita di 426 mila unità, nella seconda parte dell’anno rallenterà.
Fermi da 15 anni
In pratica, sintetizza il responsabile del Centro Studi Luca Paolazzi, «non riusciamo a schiodarci dalla malattia delle lenta crescita di cui soffriamo da inizio 2000». E al ritmo attuale l’Italia riuscirà a riagganciare i livelli pre-crisi solo nel 2028. I rischi, infatti, nell’analisi di Confindustria, «si mantengono verso il basso. Tanto che la crescita indicata per il 2017, sebbene già del tutto insoddisfacente, non è scontata e va conquistata». Tanto più che resta alta l’incertezza politica, con tutte le incognite internazionali (elezioni Usa, presidenziali francesi, politiche tedesche) e interne (il referendum).
Il Tesoro: sentiero stretto
Il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan non nega le difficoltà, «il sentiero è sempre più stretto» ripete, ma sostiene che «le nuove stime del governo che saranno approvate a giorni dal consiglio dei ministri, dovrebbero essere migliori». Quelle contenute nel vecchio Def indicavano una crescita dell’1,2% per quest’anno e dell’1,4% per l’anno prossimo. Adesso il Tesoro vorrebbe abbassare l’asticella di quest’anno allo 0,8/0,9% e all’1,1/1,2% quella del prossimo. Un livello che però sarà sempre più difficile far accettare all’Ufficio parlamentare di bilancio che proprio in questi giorni ha avviato la procedura per la validazione del quadro macroeconomico col mandato esplicito di «evitare il rischio di previsioni eccessivamente ottimistiche». A vedere nero infatti non c’è solo Confindustria: secondo il Ref il 2016 chiuderà a +0,6 ed il 2017 a +0,9%, Unicredit indica +0,9 e +0,6%, Deutsche bank +0,8 e +0,4 e Citigroup addirittura +0,7 e +0,3%.
Correzione da 16,6 miliardi
Se le cifre del Csc fossero confermate i conti pubblici andrebbero ancora più in sofferenza: il debito tornerebbe a salire toccando nel 2017 il 134% del Pil, mentre per tenere a bada «senza flessibilità» il deficit si renderebbe necessaria una correzione pari ad un punto di Pil (16,6 miliardi). «Bisogna costruire un percorso di crescita» sostiene Boccia, che in vista della legge di bilancio propone un «patto» incentrato su «tre assi» (produttività, sostegno degli investimenti, innovazione della finanza). Quanto ai nuovi dati «non c’è vena polemica - spiega -. La nostra è una constatazione a condizioni date». E infatti Padoan, che scommette molto sulla «molla» delle riforme, la vede in maniera differente: «La stima del Csc - sostiene - si basa su ipotesi di quadro programmatico differenti. Io intendo comunque le stime come una sollecitazione a prendere le misure giuste e quindi a dimostrare che queste cifre sono sbagliate». Senza polemica, ovviamente.

La Stampa 16.9.16
L’Ue non rivede i criteri sul Pil
Renzi costretto a più tagli
Si è arenata a Bruxelles la richiesta dell’Italia e di altri sette Paesi
Nella manovra 2017 almeno 5 miliardi di risparmi a tutti i ministeri
di Alessandro Barbera


La lettera risale ormai a sei mesi fa. Doveva essere il grimaldello per ottenere finalmente «più flessibilità dentro alle regole». L’avevano firmata in otto: oltre all’Italia, Spagna, Portogallo, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Slovenia, Slovacchia. E invece nulla. La richiesta della revisione del cosiddetto «prodotto potenziale» si è arenata negli uffici della direzione per gli affari economici e finanziari della Commissione europea. «Se ne riparla nel 2017», fanno sapere fonti comunitarie. Per capire il clima che si respira fra Roma e Bruxelles a proposito della prossima legge di bilancio occorre partire da qui. La regola dell’«output gap» indica la crescita che un Paese si stima sia in grado di realizzare in un certo momento tenendo conto dell’andamento dell’economia. Il calcolo di quel potenziale può determinare risultati molto diversi di cosiddetto saldo strutturale: sulla base dei criteri Ocse e del Fondo monetario l’Italia l’anno scorso era ad un livello ben al di sopra delle richieste (+0,5 per cento), mentre per la Commissione risultammo otto decimali sotto. Insomma, applicando un metodo diverso il governo avrebbe potuto impostare una manovra molto meno restrittiva di quella che probabilmente sarà costretta a varare.
Il momento delle decisioni si avvicina: venerdì 23 saranno noti i dati consolidati dell’Istat sui primi sei mesi del 2016, subito dopo - fra il 26 e il 27 - il Tesoro presenterà la nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza che prenderà atto delle nuove previsioni (pessimistiche) sulla crescita di quest’anno e del prossimo. A quanto pare il governo non è intenzionato a strappi con le regole imposte dalla Commissione. Certamente non lo farà prima del referendum costituzionale, lo spartiacque della carriera politica di Renzi e della legislatura. Ma a quel limite si avvicinerà il più possibile: nel vertice dei capi di Stato europei che inizia oggi a Bratislava il premier tenterà di avere il via libera ad un deficit per il 2017 che si avvicini il più possibile al 2,3 per cento, giusto un decimale in meno di quello di quest’anno. Al momento è difficile scommettere sul sì della Commissione. Ecco perché sui tavoli di Tesoro e Palazzo Chigi circolano numeri che contemplano scenari più complessi. Non è un caso se l’ipotesi dell’aumento della dote da destinare al pacchetto pensioni è tornata nel cassetto e i sindacati se ne lamentano pubblicamente.
Del resto il bilancio dello Stato è fatto di dare e avere: meno ampio sarà il margine di deficit concesso da Bruxelles, più dovranno salire la somma di maggiori entrate e minori spese necessarie a coprire le misure cui pensa il governo. La voce tagli oggi vale cinque miliardi di euro. Non proventi da spending review, ma riduzioni lineari vecchia maniera, «quelle necessarie a far tornare i conti», ammette un’autorevole fonte di governo. Dunque - Lorenzin permettendo - occorrerà tenere a bada la spesa sanitaria ma anche il budget di tutti gli altri dicasteri. Per rendere credibili le previsioni dei risparmi agli occhi della Commissione il commissario alla spesa Yoram Gutgeld sta preparando un piano triennale sugli acquisti di beni e servizi. C’è anche l’ipotesi di ridurre per almeno 500 milioni di alcuni dei tanti sgravi concessi negli anni a questo o quel settore e oggi considerati ingiustificati. Qui il condizionale è di rigore: non c’è ministro o commissario alla spesa che non abbia fatto promesse finite nel cestino dei sogni. Ogni euro in meno per un’agevolazione fiscale è un euro in più alla voce pressione fiscale, e Renzi di aumento delle tasse non vuole sentir nemmeno parlare. In ogni caso occorrerà aumentare le entrate: poiché Renzi non vuole nuovi balzelli, le uniche due voci che potranno dare un contributo rilevante senza risultare troppo impopolari sono l’aumento delle stime di proventi da lotta all’evasione e il secondo tempo della finestra per far rientrare i capitali dall’estero. Per quest’ultima Padoan ha ipotizzato quattro miliardi, in realtà fra gli esperti e al Tesoro nessuno scommette su più di 2,5 miliardi. Sempre che il governo non decida per una sanatoria vera e propria.

Repubblica 16.9.16
Cantone: “Alla Rai nomine irregolari”
L’Autorità anticorruzione contesta un conflitto d’interessi e i mancati sondaggi interni: “Valuti il Tesoro”
Censurata la scelta di due stretti collaboratori del direttore generale, che si difende: rispettate le regole
Il sindacato Usigrai: “Censura senza precedenti per le scelte di Campo Dall’Orto”
di Goffredo De Marchis


ROMA. Ventuno assunzioni carenti o irregolari. E per tre di loro l’Autorità anticorruzione accende l’allarme rosso rimandando al ministero del Tesoro un esame più approfondito. Il capo del’Authority Raffaele Cantone contesta alla Rai una serie di mancanze nella disciplina interna che la stessa azienda si è data e riapre il caso degli esterni chiamati dalla gestione di Antonio Campo Dall’Orto. Fra i nomi sui quali l’Anac ha acceso un faro, c’è anche quello di Gianluca Semprini, il conduttore del talk Politics su Raitre. Ma il giornalista non fa parte del pacchetto delle tre posizioni più delicate. Comunque, la relazione di Cantone ha un effetto pesante nelle relazioni dentro Viale Mazzini. L’Usigrai, il sindacato dei giornalisti promotore dell’esposto dal quale è partito tutto, attacca a testa bassa: «La censura che arriva nei confronti del vertice Rai è senza precedenti. E conferma la nostra denuncia. Deve intervenire il governo per il danno erariale provocato dal direttore generale e dal Cda».
A ore la lunga ordinanza dell’Anac (20 pagine) potrebbe provocare una prima conseguenza. La Rai prepara il benservito per Genséric Cantournet, l’ex militare francese chiamato da Campo Dall’Orto a fare il capo della sicurezza nella tv di Stato. Cantone ha rilevato il conflitto d’interessi che lo riguarda: Cantournet infatti è stato scelto una società di cacciatori di teste guidata dal padre Bernard. Verrà sacrificato nei prossimi giorni, sebbene sia una scelta fatta dall’attuale dg e da lui sempre difesa. Nel mirino ci sono altri due dirigenti vicinissimi all’amministratore. Vanno verificate le posizioni del capo staff Guido Rossi e del capo ufficio stampa Luigi Coldagelli, chiamati da Campo Dall’Orto con un incarico fiduciario e per la precisione con un contratto a tempo determinato. Gli avvocati di Viale Mazzini sono convinti che i due casi siano facilmente giustificabili. In realtà, il problema è solo burocratico, manca un via libera del ministero dell’Economia, azionista della Rai. Ma le carte ancora non sono chiarissime.
A Viale Mazzini gli avvocati sono protagonisti assoluti in queste ore. Sono stati divisi in due fasce anche gli altri 18 casi di assunzioni esterne che coinvolgono nomi come le direttrici di Raidue e Raitre Dallatana e Bignardi, il Cfo Agrusti, il direttore di Raisport Romagnoli. Alla Rai Cantone rimprovera di non aver usato il job posting per la selezione di manager. Ovvero quello strumento per cui si può concorrere alla posizione inviando curriculum e altri dati all’azienda. Otto dirigenti però sono stati assunti prima che il regolamento interno diventasse operativo e quindi la risposta all’Anac è più semplice. Gli altri dieci invece sono entrati in Rai quando la procedura di job posting era già attiva. Nei casi meno sensibili quello dell’Authority è soprattutto un richiamo (accompagnato tuttavia dalle parole irregolarità e carenze) ma la bacchettata rimane.
La Rai risponde difendendo le sue scelte prese rispettando «a grandi linee i principi generali del piano anticorruzione dell’azienda» e sottolinea i passaggi della lunga relazione in cui alla tv di Stato si riconoscono alcuni progressi. «La Rai si muove in un contesto di forte evoluzione », si legge nel documento dell’Anac e soprattutto non ha sforato il tetto del 5 per cento di dirigenti presi dall’esterno, cioè è stata nei parametri. «A differenza di quanto sostenuto da alcuni», si fa notare nel comunicato della Rai con riferimento al deputato Pd Michele Anzaldi, grande nemico di Campo Dall’Orto e dell’attuale struttura Rai. Però gli avvocati sono al lavoro perché da parare un altro colpo, dopo il tetto agli stipendi votato dal Senato l’altro ieri.

Corriere 16.9.16
La scomparsa di Emanuela Orlandi: un mistero con troppe falsità
di Gian Antonio Stella


«Di sicuro c’è solo che è sparita», potrebbe titolare il grande Arrigo Benedetti parafrasando la celeberrima pagina sulla morte di Salvatore Giuliano. E Tommaso Besozzi potrebbe ripetere oggi le stesse identiche domande: «Chi è stato a tradirla? Dove è stata uccisa? Come? E quando?».Perché questo è il punto: la «verità» sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, ammesso che sia stata ricercata davvero, non c’è. Meglio, una verità esiste senz’altro. Reale. Dura. Tragica, con ogni probabilità. Sicuramente occultata da chi temeva e teme scoperte scomode. E va capito anche Pietro Orlandi.
Contro l’archiviazione dell’inchiesta sulla sparizione della sorella e di Mirella Gregori, decisa da Giuseppe Pignatone (con il dissenso di Giancarlo Capaldo), si appella a Sergio Mattarella perché le indagini vadano avanti e contesta «la mancanza di collaborazione da parte dello Stato Vaticano» di cui Emanuela era cittadina ricordando le parole di un inquirente: «Un diaframma frapposto tra lo Stato italiano e la Santa Sede».
Ma dopo tanti anni e tante «rivelazioni» e tanti «scoop» e tanti depistaggi, aveva senso prendere una fanghiglia di fatti veri, verbali, ipotesi, voci, confessioni, sussurri e impastarla per costruire una tesi? Mah... Più serio, forse, mettere in fila, una dopo l’altra, le cose certe. Le carte processuali. I ricordi fissati nelle deposizioni prima che la memoria li annebbiasse. Lasciando intatti i dubbi. Tanti. Troppi.
La verità sta in cielo , il nuovo film di Roberto Faenza nelle sale dal prossimo 6 ottobre prodotto da Elda Ferri, Jean Vigo Italia e Rai Cinema, vuol essere appunto questo. La ricostruzione passo passo, romanzata quel tanto che basta ma ancorata sempre a date ed episodi accertati, di una storia che da trentatré interminabili anni toglie il sonno non solo alla famiglia della quindicenne romana scomparsa nel nulla, con la sua t-shirt bianca, la borsa di pelle e la custodia del flauto, la sera del 22 giugno 1983, ma a tutti gli italiani.
La trama di partenza è semplice: la reporter di origine italiana Maria (Maya Sansa) viene inviata da una tivù inglese a Roma per ricostruire tutto dal principio. Nella scia di Mafia Capitale. Intorno, tutti i personaggi d’obbligo come sono usciti da tre decenni di cronache. C’è Enrico De Pedis (Riccardo Scamarcio), il «Renatino» della banda della Magliana che finirà ucciso e sepolto con tutti gli onori in una cripta di Sant’Apollinare. C’è l’amante Sabrina Minardi (Greta Scarano), l’ex moglie del calciatore Bruno Giordano destinata ad abbruttirsi con sesso, alcool e droga dopo essere stata travolta da Renatino con una grandinata di banconote: «Ce stanno centoventi o centrotrenta milioni qua dentro, voglio che li spendi tutti!». C’è Raffaella Notariale (Valentina Lodovini), l’«inviata di un noto programma televisivo italiano», identificabile con Chi l’ha visto? , che per prima riesce ad agganciare Sabrina permettendo di avanzare una serie di ipotesi sulla sparizione della ragazzina. C’è il cardinale Paul Casimir Marcinkus detto «Chink» (Randall Paul), il potentissimo arcivescovo nato a Chicago dalle parti di Al Capone e salito su su fino ai vertici dello Ior. C’è Pietro Orlandi, che interpreta se stesso, non smette di dar battaglia per capire cosa è successo a Emanuela e offre la chiave del titolo raccontando che papa Francesco, a lui e alla madre, ha sussurrato con un sospiro: «Lei è in cielo».
Cosa sia successo resta un grande e tragico mistero. Via via cresciuto, di anno in anno, col sovrapporsi di nuovi dettagli. Sconcertanti. Come la Bmw di colore scuro che all’inizio del film scompare dietro l’angolo proprio mentre sparisce Emanuela e una uguale che riappare (è la stessa? è un’altra? è sempre rimasta lì?) nei parcheggi di Villa Borghese tredici anni dopo, lasciando il dubbio sia quella usata secondo Sabrina Minardi da «Renatino» («Bibì, quello che hai visto non l’hai visto, chiaro?») per disfarsi della ragazza.
E poi la misteriosa comparsa di un flauto che potrebbe essere di Emanuela fatto ritrovare da un personaggio inquietante che si autodenuncia del sequestro. E l’appuntamento dato alla reporter Maria da un certo «padre Albert, della Penitenzieria Apostolica» che sul caso di Emanuela promette rivelazioni: «Come certamente sa, dopo la chiusura delle indagini da parte della Procura di Roma, la Chiesa è stata investita da numerose critiche, quasi fossimo noi a voler tacitare l’inchiesta... Siamo invece proprio noi ad avere scoperto una nuova traccia...». Cioè? «Abbiamo ricevuto una confessione...». Finché la cronista si ripresenta all’ora fissata. E scopre che il «padre Albert, della Penitenzieria Apostolica» esiste sì, ma è un altro.
E poi ancora la richiesta di arresto e di estradizione di Marcinkus per quattordici milioni di dollari falsi inutilmente consegnata da due funzionari del Dipartimento di Giustizia e dal detective Richard Tammaro dell’Fbi arrivati apposta dall’America e liquidati con poche righe di risposta: «Monsignor Marcinkus gode del diritto di extraterritorialità, garantita dallo Stato del Vaticano. Non consentiamo pertanto né al suo interrogatorio, né alla sua estradizione».
E tutto intorno rivelazioni vere o false sui finanziamenti a Solidarnosc e i giochi oscuri di Ali Agca, i Lupi Grigi turchi e le ambiguità del funzionario della Stasi Markus Wolf e poi ancora le ricerche di «un virus letale e una micropsia nella statuetta sacra di Casaroli» e l’appartamento della vedova di «Renatino» Carla Di Giovanni posizionato giusto in faccia a quello di Giulio Andreotti a San Lorenzo in Lucina...
Una giostra impazzita di rivelazioni vere e rivelazioni false. Così difficili da decifrare da costringere gli autori de «La verità sta in cielo» a mobilitare nove avvocati (nove!) per controllare una per una le fonti, le tesi, le frasi, le virgole... Per poi procedere faticosamente, tra sorprese amare, arretramenti e colpi di scena, alla ricerca della «verità». Verrà mai accertata? Chissà. In ogni caso, vale la pena di rileggere Albert Einstein: «È difficile sapere cosa sia la verità, ma a volte è facile riconoscere una falsità». E su Emanuela Orlandi di falsità, negli anni, ne abbiamo viste davvero troppe...

Corriere 16.9.16
Cerroni, «Io, Supremo dei rifiuti ho sostenuto tutti i partiti tranne il M5s»
Il proprietario di Malagrotta: ho dato contributi elettorali, regolarmente denunciati.
Non avrei votato Raggi, per fare il sindaco non ci si alza dalla sera alla mattina
di Sergio Rizzo

qui
http://www.corriere.it/politica/16_settembre_16/cerroni-io-supremo-rifiuti-sostenuto-tutti-partiti-tranne-m5s-raggi-rifiiuti-16dfed3a-7b7e-11e6-ae27-bc43cc35ec72.shtml


Repubblica 16.9.16
“La Chiesa non deve pagare la vecchia Ici”
Il Tribunale europeo conferma la scelta dell’Italia, che decise di rinunciare a incassare 5 miliardi dal Vaticano
di Alberto D’Argenio


ROMA. Per i Radicali voleva essere un regalo postumo a Marco Pannella. Ma il Tribunale Ue del Lussemburgo non ha dato ragione al loro ricorso contro le agevolazioni fiscali agli enti ecclesiastici. Dopo anni di battaglie, la sentenza emessa ieri in primo grado dai giudici comunitari salva la Chiesa da un conto salato: fino a cinque miliardi di euro.
Nel 2012 la Commissione condannò l’Italia per aiuti di Stato illegali in favore degli enti ecclesiastici in quanto gli sgravi di cui godevano cliniche, alberghi, scuole e altre attività commerciali legate al mondo cattolico distorcevano la concorrenza danneggiando i loro competitori, che le tasse le pagavano. Tuttavia Bruxelles a sorpresa non decretò il recupero dell’imposta sugli immobili, l’Ici, non pagata dal 2008 abbracciando la tesi del ministero dell’Economia per il quale era impossibile stabilire quanto e chi dovesse mettere mano al portafoglio. Stime dell’Anci alla mano, un buco per le casse dello Stato da 4-5 miliardi.
Il contenzioso con la Commissione fu quindi chiuso con le nuove regole istituite da Monti alla nascita dell’Imu, imposta che secondo la Ue metteva fine agli aiuti di Stato. Altro punto messo in discussione dai Radicali, secondo i quali invece le regole dell’Imu per gli enti non commerciali continuano a regalare un vantaggio competitivo alla Chiesa di circa 500 milioni all’anno, così come la norma firmata Tremonti che concede alle attività commerciali cattoliche uno sconto sull’Ires di 100-150 milioni l’anno. Questi i quesiti dei due ricorsi promossi dall’ex deputato Maurizio Turco e dal fiscalista Carlo Pontesilli per conto di una scuola Montessori romana e di un bed&breakfast laziale.
Con lo Stato italiano che nella causa si è schierato a fianco della Commissione, dunque contrario a chiedere indietro i soldi non pagati.
Nel merito i quesiti del ricorso sono stati bocciati con la formula: i ricorrenti «non sono riusciti a dimostrare» le loro tesi. Il Tribunale una svolta comunque l’ha data dichiarando ricevibile il ricorso e per i giuristi si tratta una decisione rivoluzionaria in quanto allarga la platea di chi può mettere in discussione le decisioni della Commissione. Un atteggiamento però, via libera processuale e bocciatura nel merito, che porta i ricorrenti a parlare quanto meno di «fatti straordinari». Ma proprio il riconoscimento in primo grado dell’ammissibilità della causa apre le porte all’appello in Corte di giustizia europea che Turco e Pontesilli hanno annunciato ieri.

MONDO
Corriere 16.9.16
Usa, polizia uccide 13enne afroamericano: aveva una pistola ad aria compressa
È accaduto a Columbus. La polizia era stata chiamata per una rapina a mano armata
di Laura De Feudis

qui
http://www.corriere.it/esteri/16_settembre_15/usa-polizia-uccide-13enne-afroamericano-aveva-pistola-ad-aria-compressa-e78b30be-7b5d-11e6-ae27-bc43cc35ec72.shtml


Corriere 16.9.16
Trump risale nei sondaggi e promette all’America 25 milioni di posti di lavoro
di G. Sar.


NEW YORK Dai valori del colesterolo, alto, alle percentuali dei sondaggi, alti anche quelli. Donald Trump sta vivendo un momento favorevole nella campagna elettorale. La sua avversaria, Hillary Clinton, è ricomparsa ieri dopo tre giorni di stop. La vicenda della polmonite, comunicata al pubblico con ritardo, ha lasciato il segno negli indici di gradimento. L’ultima rilevazione diffusa da New York Times e Cbc segnala che l’ex segretario di Stato ha perso 6 punti in un mese. Ad agosto guidava con il 46% contro il 41% di Trump; ora la distanza si è ridotta: 46% a 44%. Un’altra ricerca, condotta da Usc Dornsife- Los Angeles Times capovolge le posizioni. Il front-runner repubblicano è in testa con il 47,2% contro il 41,3% della contendente.
Nel meccanismo delle presidenziali, però, è decisiva la distribuzione dei consensi, Stato per Stato. Secondo i sondaggi Trump ha sorpassato la rivale in due «Swing State», le realtà in bilico: in Florida è avanti con il 47% contro il 44% e in Ohio con il 46% contro il 41%. È interessante incrociare queste soglie con l’analisi dei redditi nel 2015, diffusa nei giorni scorsi dal Census Bureau. In Florida il reddito medio delle famiglie era ancora inferiore del 6% rispetto al 2008, livello pre-crisi; nell’Ohio lo scarto era pari al 3,3%. Ciò significa forse che esiste una relazione tra il disagio economico e il voto per Trump? Intanto Trump annuncia un programma economico pieno di promesse: «È ora di tornare a pensare in grande. Con Obama e Hillary Clinton l’economia è cresciuta in media solo dell’1%. Ho un piano per arrivare al 3,5% e creare 25 milioni di posti di lavoro». La ricetta è un mix di dottrine: taglio delle tasse; rinegoziazione dei trattati commerciali, investimenti sulle infrastrutture.

La Stampa 16.9.16
Il libertario e la verde
Sulla corsa di Hillary anche l’incubo outsider
La Clinton riprende i comizi, i sondaggi spingono Trump Spuntano Johnson e Stein: a loro le simpatie dei giovani
di Paolo Mastrolilli


Una cosa è certa: Trump sta rimontando Clinton. Il «momentum», cioè il pendolo dell’inerzia degli elettori, oscilla dalla sua parte da almeno un paio di settimane. Lo conferma il sondaggio pubblicato ieri dal «New York Times», secondo cui a Hillary, ieri tornata a fare comizi presentandosi sul volo che l’ha portata in Nord Carolina con un netto «sto bene», è rimasto un vantaggio di due punti a livello nazionale, che scende a zero se si considerano nella gara anche il candidato libertarian Gary Johnson e quello verde Jill Stein. Ma la cosa più preoccupante, per Clinton, è che i due outsider le stanno portando via oltre un terzo del voto dei giovani, che dovrebbero rappresentare una fetta essenziale della sua coalizione vincente.
Hillary era uscita dalla Convention di Philadelphia con un vantaggio di circa 8 punti a livello nazionale, e una posizione solida in quasi tutti gli stati chiave. Nel mese di agosto però è sparita, dedicandosi solo alla raccolta di fondi, mentre Trump ha cambiato i capi della sua campagna ed è diventato più disciplinato. Poi è arrivata la gaffe sugli elettori di Donald definiti «un mucchio di deplorabili», e la crisi di salute con lo svenimento a Ground Zero. Il risultato, secondo il sondaggio pubblicato ieri dal New York Times, è che Clinton ora ha il sostegno del 46% dei probabili votanti, contro il 44% di Trump. Il distacco si allarga a 5 punti se si considerano tutte le persone registrate per andare alle urne, ma è un dato meno attendibile perché non è certo che poi voteranno. Se però nel sondaggio si includono anche gli altri due candidati, Hillary e Donald si ritrovano appaiati al 42%, Johnson prende l’8% e Stein il 4%. Il dato più preoccupante per Clinton è che il libertario raccoglie il 26% degli elettori compresi tra 18 e 29 anni, e la verde il 10%. Sommandoli si arriva al 36%, oltre un terzo del gruppo demografico che aveva fatto parte della coalizione vincente di Obama e Sanders, e di cui Hillary ha bisogno per vincere. Ora sta calando pure negli stati chiave, con Trump in vantaggio in Ohio di 5 punti, in Iowa di 8, in Florida di 3 e in Nevada di 2. Se cede anche in Pennsylvania, la Clinton rischia di essere spacciata.
Johnson è un ex governatore repubblicano del New Mexico, e come vice ha scelto l’ex governatore repubblicano del Massachusetts Weld. Il Libertarian Party favorisce il laissez-faire economico, il non interventismo, le libertà civili e l’abolizione dello stato sociale, e quindi in teoria dovrebbe attirare i repubblicani moderati scontenti di Trump. Johnson però è una figura singolare, un appassionato scalatore che è salito anche sul monte Everest, e questa sua sensibilità per l’ambiente unita alla passione per le libertà attira i giovani.
Stein è una dottoressa laureata ad Harvard che ha passato la vita ad occuparsi di ecologia, e quindi esercita un fascino naturale sui giovani liberal. È facile immaginare che alcuni elettori di Sanders preferiscano lei, e magari anche Johnson, che appare meno compromesso di Hillary con l’establishment. È vero infatti che Clinton è la prima candidata presidenziale democratica in 60 anni ad avere un vantaggio di 11 punti fra i bianchi laureati, ma in questo gruppo forse ci sono più padri di successo, che giovani emergenti. Quindi lei parla a chi ha qualcosa da difendere nello status quo, ma non a chi sogna di cambiare, che era stata la formula per il successo di Obama e di Sanders.

La Stampa 16.9.16
Lungo il muro di Orban
“Così noi ungheresi difendiamo l’Europa dall’invasione”
La rotta balcanica è sigillata, al confine con la Serbia 5 mila profughi Nel Paese propaganda e volantini contro gli stranieri: terroristi
di Monica Perosino


Sajad Azadi, farmacista di Kabul, ha due cose in testa: sua moglie e le onde strette di filo spinato di fronte a lui. «L’Europa qui è così vicina. E così lontana», dice contemplando il muro di Orban mentre si lava i denti all’unico rubinetto del campo irregolare di Horgos, un ammasso di teli di plastica sorretti da rami e tetti di foglie vicino alla zona di nessuno, la «zona di transito» al confine tra Serbia e Ungheria.
Qui vivono 130 persone, per lo più afghani. Nulla rispetto alle migliaia ammassate prima della costruzione del muro. Aspettano di percorrere i 5 metri che li separano dall’Ungheria. Oggi la barriera di filo spinato viene usata per stendere i panni e appendere gli avvisi di ricerca delle persone scomparse lungo il viaggio. Ma nessuno osa avvicinarsi troppo. «Dopo la denuncia delle violenze della polizia da parte di Human Rights Watch - dice Vladimir, volontario della Croce Rossa - la caccia al migrante sembra essersi calmata, ma non si sa mai. Forse è solo perché il referendum si avvicina e i politici cercano di “ripulirsi” agli occhi dell’opinione pubblica». Il prossimo due ottobre 8 milioni di ungheresi saranno chiamati a rispondere a una domanda sul piano europeo di ridistribuzione dei profughi nei Paesi Ue. Il quesito del referendum è stato definito da più parti «ostentatamente xenofobo»: «Volete che la Ue decreti una ricollocazione obbligatoria dei cittadini non ungheresi in Ungheria senza l’approvazione del governo ungherese?».
Sajad appoggia la foto della moglie sul bordo del lavatoio. Lei è rimasta a Kabul: «Voi europei dite che non ci volete perché veniamo qui per i vostri soldi, che siamo migranti economici. Contate gli anni della guerra in Siria, sono 5. Noi siamo in guerra con i taleban da 35 anni». Lo dice di getto, poi si pente subito: «Che orrore siamo diventati, facciamo a gara tra chi è il più sfortunato…».
Una volta al giorno, alle 8 di mattina, la «porta» viene aperta: possono passare 15 persone, secondo una lista decisa in base all’arrivo. «Possono passare le famiglie, 14 persone - spiega Sayed, il capo dal campo, e il responsabile delle liste -, e un uomo da solo. Quindici al massimo. Oggi tocca ai minori soli».
Da quando Budapest ha deciso di chiudere la rotta balcanica sigillando la frontiera con 175 chilometri di barriera presidiata da 10 mila agenti - i «migrants hunters», i cacciatori di migranti -, c’è un solo modo per entrare legalmente nel Paese e proseguire il viaggio verso l’Europa: passare dalle due zone di transito autorizzate, una è a Horgos, dove stanno gli afghani, l’altra è Kelebia, dove aspettano i siriani. Trenta persone al giorno. Nulla rispetto ai flussi verso Grecia e Italia. Eppure Orban ha deciso di «implementare il muro», con una doppia barriera di filo e una strada per le pattuglie in mezzo, ha stabilito di assumere altri 3000 agenti per la «situazione drammatica ai confini» e ha spedito a casa di 4 milioni di famiglie un opuscolo - firmato, e pagato, dal governo - in cui esorta gli ungheresi a «mandare un messaggio a Bruxelles»: nelle 18 pagine in carta patinata si spiega in sintesi per cosa andranno a votare gli ungheresi, e cioè per «difendere l’Ungheria» dai terroristi, l’Europa dall’invasione, la «nostra cultura minacciata dai ricollocamenti voluti dalla Ue» (che poi sarebbero 1200 in tutto). Contraddittorio, ma nessuno sembra farci caso. L’opuscolo si conclude con le «no go zones», le zone in cui sarebbe meglio non andare per l’alto tasso di immigrati: Parigi, Stoccolma, Göeborg, Bruxelles, Berlino, Marsiglia. Sono i «consigli di viaggio» del governo.
Se Orban ha deciso di fortificare il muro, la Serbia non sta a guardare: il governo ha promesso «misure più drastiche, comprese barriere ai confini» per contenere il «flusso continuo e incontrollato di arrivi», nonostante la chiusura della rotta balcanica.
Attualmente in Serbia si trovano circa 5 mila migranti, per lo più a ridosso della frontiera settentrionale con l’Ungheria, ma finora Belgrado si era sempre opposta all’idea di erigere barriere anti-immigrati. E se la Serbia si avvicina a Orban l’asse con la Polonia ora sembra più che un’alleanza politica una luna di miele in chiave anti Ue: «C’è un detto in Ungheria per spiegare che ti fidi di qualcuno. Noi diciamo che “puoi andare in una stalla e rubare i cavalli insieme”», ha detto Orban. Dall’altra parte del confine il leader del Pis, il partito ultraconservatore al governo, Kaczynski ha risposto all’amico con un sorriso: «C’è una stalla molto grande, chiamata Unione europea, nella quale possiamo rubare cavalli insieme».

La Stampa 16.9.16
Gli estremisti di destra aggrediscono i rifugiati

Scontri fra estremisti di destra e richiedenti asilo mercoledì notte nella cittadina di Bautzen, in Sassonia, nell’est della Germania. Circa 80 militanti di estrema destra hanno aggredito una ventina di profughi in una piazza del centro. I due gruppi si sono affrontati con insulti, lancio di bottiglie, calci e spintoni. A riportare la calma sono intervenuti un centinaio di poliziotti, che hanno dovuto usare spray urticanti e manganelli mentre i profughi lanciavano bottiglie. Già nei mesi scorsi a Bautzen erano avvenuti incidenti fra residenti e richiedenti asilo. [a. alv.]

La Stampa 16.9.16
La pericolosa battaglia di uguaglianza delle jihadiste
di Karima Moual


Le jihadiste che provano a farsi esplodere senza la promessa di un paradiso con le vergini, come quella per i martiri di sesso maschile, sono forse più pericolose, perché più consapevoli e motivate.
Tre donne con indosso il burqa hanno attaccato una stazione di Mombasa sulla costa del Kenya, ma sono state uccise dopo aver pugnalato due agenti e dato alle fiamme l’edificio con una bomba molotov. Era l’11 settembre. Puntuale il lancio dell’agenzia di propaganda dell’Is Amaq: «Erano sostenitrici dello Stato islamico e hanno effettuato l’operazione in risposta alla chiamata a colpire i Paesi crociati». L’attacco jihadista tutto al femminile arriva a pochi giorni da un altro - questa volta scampato - in Francia che ha visto il coinvolgimento di altre tre musulmane poi arrestate.
Non dobbiamo cadere nell’inganno. Le adepte all’Isis, anche se apparentemente sono votate alla complementarietà dei mariti, con il ruolo di madri e compagne utili solo a procreare una generazione devota al Califfato, in realtà dietro al velo nascondono un carattere di donne libere anche nella scelta di abbracciare il jihad, forse in modo più convinto e meditato dei maschi.
A mettere in ordine gli appunti e le storie si scopre che vi sono ragazzine affascinate dai jihadisti come lo sono le loro coetanee dalle star dello show business. Oppure altre talmente motivate e consapevoli della causa jihadista da vestire i panni di spin doctor dei loro uomini jihadisti. Vere procacciatrici di nuove leve per le «bandiere nere» di Al Baghdadi. Un ingresso nel campo di battaglia che ha acceso la discussione in Francia - creando non poche polemiche - sulla parola «femminismo jihadista». «C’è un femminismo jihadista in atto - spiega sulle pagine di Le Monde il sociologo Farhad Khosrokhavar -. Le donne mostrano di poter andare fino in fondo, che la violenza non è il monopolio dell’uomo».
Ora che l’Isis comincia a registrare sconfitte sul campo, ha cambiato strategia su un nuovo fronte, mettendo a punto una inedita versione dell’ordine sociale ideale tra donne e uomini, in contrasto con quella classica portata avanti fino ad oggi, che vedeva le donne solo come procreatrici e madri. Il sacrificio delle donne, infatti, con questi ultimi attacchi non può che tradursi in un atto estremo. Se da una parte è una battaglia di uguaglianza, dall’altra evidenzia una minaccia ancora più pericolosa perché gioca sulla percezione: non solo giovani europei convertiti in poco tempo alla causa, ma insospettabili ragazze dai volti delicati e spesso percepite come vittime e sottomesse. Paradossalmente l’ingresso delle donne nel Califfato, che al pari degli uomini preparano attentati, ci riporta ancora una volta all’irrisolto e controverso tema delle donne nell’Islam.
Proprio in questi giorni, in Danimarca si è svolta la prima preghiera guidata da due donne Imam. Sherin Khankan e Saliha Marie Fetteh avevano un obiettivo preciso: sfidare le strutture patriarcali e ispirare altre donne. In Marocco come in Tunisia si dibatte su come riformare la legge sull’eredità che, ispirandosi alla Sharia, dimezza ciò che spetta alle donne rispetto agli uomini. La battaglia, qui come altrove, non si colora solo di femminismo ma anche di diritti umani. Ma chi la sostiene e la porta avanti è consapevole che se c’è una misoginia più difficile da estirpare è certamente quella portata avanti dalle donne stesse. Con le loro azioni e le loro parole, ancor più degli uomini, spesso ostacolano l’emancipazione femminile. Le estremiste jihadiste votate alla barbarie si ritrovano, in extremis, a doversi ritagliare con la morte e il martirio un ruolo alla pari. Come dire: non siamo né vittime né sottomesse.

Corriere 16.9.16
L’oppositore di Putin: «Si crede l’uomo del destino, ma il suo regime finirà»
Il blogger dissidente Alexej Navalny parla delle elezioni di domenica 18 settembre: «Saranno quelle con l’affluenza più bassa della storia russa»
intervista di Paolo Valentino

qui
http://www.corriere.it/esteri/16_settembre_16/navalny-oppositore-putin-elezioni-russia-d869231e-7b78-11e6-ae27-bc43cc35ec72.shtml


CULTURA
il manifesto 16.9.16
Ingrao e Trentin 1998
di Alberto Olivetti

«Ma dove sta, alla fine, il nodo irrisolto, il punto cruciale che ha portato non solo al crollo dell’Urss e del suo impero, ma più largamente a una sconfitta del movimento operaio mondiale nel chiudersi di questo secolo: insomma dove sta l’errore strategico che ha condotto il comunismo allo scacco? Sta nella linea della dittatura militare imboccata subito e fatalmente dai bolscevichi nel 1917? Oppure ha la sua fonte nello stesso marxismo e socialismo europeo, prima ancora di Lenin, facendo salva (ma non proprio tanto) la barba augusta di Karl Marx?».
Sono domande che si rivolge Pietro Ingrao nel quindicesimo (e penultimo) capitolo, «Liberazione e statalismo», di un volume inedito concluso nel luglio del 1998. Il libro, con il titolo «Promemoria», è in corso di stampa presso la casa editrice Ediesse nella collana Carte Pietro Ingrao.
Gli interrogativi che si pone Ingrao costituiscono il costante riferimento problematico che dà senso, ed orienta, le riflessioni sulle vicende e le scelte del Pci e della sinistra italiana negli anni della Repubblica, fino all’assassinio di Aldo Moro.
Ma, in questo capitolo finale, quelle domande e la tematica relativa alla ‘liberazione’ (così presente nell’impegno politico di Ingrao) sono mosse dalle argomentazioni che Bruno Trentin svolge ne «La città del lavoro», pubblicato da Feltrinelli nell’autunno del 1997: «La tesi centrale del libro, scrive Ingrao, è che, nella sinistra europea, già a partire dalla sua culla tedesca, c’è stata una lettura ‘statalista’ del processo di liberazione della classe operaia».
Una scelta che secondo Trentin, riassume Ingrao, «opacizza le nuove, radicali forme di alienazione del lavoro subordinato e che, alla fine, affida la fuoruscita dall’oppressione capitalistica e la transizione verso una società socialista alla conquista dello Stato. È così elusa e alla fine cancellata – sostiene Trentin – la questione essenziale della liberazione del lavoro subordinato, espropriato della sua creatività nel luogo della produzione, e quindi ferito nella sua identità umana, schiacciata dall’universo macchinale».
Ne «La città del lavoro» Trentin illustra bene la dinamica di quella che considera una fatale deriva. La sinistra ha spostato la ‘rivoluzione’ sociale dal cuore della ‘società civile’, ovvero dal conflitto nel luogo di produzione, alla conquista dello Stato.
Trentin, pertanto, contrappone nettamente la ‘società civile’ all’ambito e alla azione del potere politico statale. Ingrao ritiene che non corrisponda ai fatti descrivere, come fa Trentin, una ‘società civile’ che si possa affermare «a sé», distinta da «un potere pubblico che ha il volto (e la complessità articolata) che la sfera dello Stato è venuta via via assumendo nella modernità».
Il nesso tra ‘pubblico’ e ‘privato’ è destinato a dilatarsi. Così Ingrao ritiene necessaria, da parte degli attori sociali, «più politica, ma anche più connessioni fra iniziativa nell’intimo della produzione (per usare l’antico termine gramsciano) e un’immaginazione nuova (oggi quasi inesistente) di istituzioni».
Trentin vede nella ‘creatività’ del lavoro la fonte viva di una liberazione piena della ‘individualità’. Ingrao replica che il «tragico» Novecento ha svelato «una complicazione della soggettività umana».
Allora l’«individualità», «rimanda a un universo assai complesso e multiforme, radicalmente ambiguo ed oscillante: mescolare di più le sfere della vita e del produrre, se vogliamo fare i conti con queste complicazioni e oscurità e se non vogliamo che il nodo del lavoro resti drammaticamente isolato e frantumato, e alla fine perdente».

Corriere 16.9.16
«La Torà, luce di tutti i mondi»
In «L’anima della vita» Hajjim descrive un Dio corporeo. E l’uomo è la sua opera suprema
di Pietro Citati


Hajjim nacque a Volozhin in Lituania nel 1759: fino alla morte nel 1821 fu il rabbi del villaggio. Fondò una casa di studio, che diventerà il modello di tutte le accademie talmudiche del diciannovesimo secolo. Scrisse un solo libro, L’anima della vita (edizioni Qiqajon, Bose, a cura di Alberto Mello), che uscì postumo nel 1824. Combatté gli eccessi della mistica cassidica, sviluppando la lettura dello Zohar e degli scritti di Izchak Luria.
Al contrario del Dio della Genesi , nel momento della creazione il Dio di Luria si contrasse, si ritirò, si limitò, si chiuse nella propria profondità oscura, rinunciando a una parte della propria estensione. Nello spazio abbandonato, lasciò un residuo della luce divina, il reshimu simile alle gocce d’olio o di vino rimaste in una bottiglia vuotata. Con la violenta concentrazione in sé stesso, Egli volle conoscersi nella propria inattingibile profondità. Questo sovrano gesto di contrazione diede origine all’universo. Se Dio non si fosse concentrato, l’universo non sarebbe mai nato: Egli volle che noi fossimo formati dalla stessa sostanza divina. Dunque il mondo è doppio: totalmente pieno di Dio e vuoto di Lui; disceso direttamente da Lui e abbandonato da Lui; luogo di gioia e di esilio.
Dopo di essersi concentrato in sé stesso, Dio si espanse e si manifestò, ispirato dalla forza dell’amore, e gettò nello spazio la luce delle sue emanazioni, le dieci Sefirot . Questa luce era troppo accecante perché lo spazio potesse sopportarla; e venne contenuta e fasciata in dieci vasi. Non tutti i vasi erano identici. I primi tre erano puri e perfetti: gli altri di specie inferiore. La forza della pura luce divina non sopportava qualsiasi adombramento. I vasi delle sette Sefirot inferiori si frantumarono; e le scintille divine si sparpagliarono in ogni angolo della creazione — negli uomini, negli animali, nei laghi, nei fiumi, nelle pietre, nelle piante velenose. Le scintille erano dovunque, ma esiliate, spesso prigioniere delle potenze demoniache. Tutto venne macchiato, spezzato, frantumato. L’albero della vita si separò dall’albero della conoscenza: l’elemento maschile da quello femminile; la Torà venne lacerata in seicentomila lettere. Da un lato, la rottura dei vasi faceva parte del provvidenziale processo di emanazione e rivelazione di Dio: dall’altro le scintille si mescolarono e contaminarono.
Così l’ebreo venne assillato da sentimenti opposti. Se Dio era stato umiliato, come non essere pieni di angoscia? Ma, se le scintille divine erano onnipresenti, come non venire posseduti da profondissime lacrime di gioia? Il fedele ebreo doveva cercare di liberare le scintille cadute prigioniere, restaurando la perduta unità della luce. Tutti i suoi più umili gesti quotidiani erano gesti di redenzione. Quando lavorava con amore scrupoloso le pietre, liberava le scintille dalle pietre: quando, seduto al suo desco di ciabattino, maneggiava con precisione il cuoio, liberava le scintille prigioniere del cuoio.
Nell’ Anima della vita , Dio è corporeo: se il filosofo Maimonide aveva negato qualsiasi antropomorfismo di Dio, la mistica talmudica e cassidica esaltano la sua corporeità: ha occhi, orecchi, bocca, braccia, mani — senza misura e senza limiti. Come diceva lo Zohar tutti i mondi, superiori ed inferiori, sono inglobati l’uno nell’altro, l’uno dentro l’altro. Tutte le luci sono comprese l’una nell’altra e si illuminano reciprocamente; tutti i luoghi sono collegati gli uni agli altri «come gli anelli di una catena». Hajjim sottolinea l’influenza del mondo superiore su quello inferiore: il basso viene illuminato dall’alto, ma al tempo stesso egli descrive gioiosamente l’influenza del basso sull’alto: l’uomo è una creatura inferiore, eppure la sua parola influenza e decide i mondi superiori. L’uomo è l’ultima e la suprema opera di Dio: «una creatura meravigliosa», che ricapitola tutte le gerarchie, i precetti, gli splendori della luce più pura, i mondi e i palazzi superiori.
Nella tradizione ebraica di Luria, l’uomo è una figura grandiosa: assai più che nella tradizione cristiana, dove il peccato di Adamo viene costantemente ricordato. I commentatori della Torà discutono se siano più grandi gli angeli o gli uomini. Secondo alcuni di essi, l’uomo, essendo di natura corporea, è inferiore agli angeli, che sono puri spiriti e percepiscono mirabilmente le cose divine. Secondo altri, gli angeli sono difettosi: appunto perché sono sprovvisti di un corpo, non possono mettere in pratica tutta la Torà — la quale ha bisogno di corpo. Se la percezione del divino è più pura degli angeli, gli uomini possono congiungere ed elevare le potenze e le luci, riassumendo in sé stessi tutti i mondi, come gli angeli non possono fare. L’uomo è più comprensivo, totale e mobile degli angeli. Come diceva lo Zohar , «nessuna parola dell’uomo, neppure un suono, va a vuoto. Ogni parola che esce dalla bocca dell’uomo sale nei mondi superiori, risvegliando forze superiori».
Come raccomanda la tradizione di Israele, Hajjim ripete che bisogna studiare la Torà e i suoi seicentotredici precetti, con una specie d’intelligenza supplementare e superiore, rivelando i suoi segreti — cioè tutta la Torà perché la Torà è un immenso segreto. Oggi in Israele e nei Paesi d’Europa, la profezia è scomparsa: la profezia che ci permetteva di innovare e persino di sospendere i precetti di Dio. In questo tempo di decadenza, non possiamo che osservare e mettere in pratica la Torà — con infinita precisione ed attenzione, le quali sono oggi la nostra salvezza. La Torà è la luce di tutti i mondi è il loro slancio vitale. Se l’universo restasse privo di lei, interi mondi tornerebbero al caos originario. Dio, la Torà ed Israele sono indissolubilmente legati e dipendono l’uno dall’altro.

La Stampa 16.9.16
Un ventennio di finanziamenti
Così Franco pagava il Msi
In un libro le prove dei soldi dati alla destra italiana sin dagli Anni 50
di Francesco Olivo


Il Movimento Sociale italiano è stato finanziato dal regime di Franco. Il telegramma è chiaro: «Effettuato pagamento a favore di Vostra Eccellenza di 2.738.000 lire, che corrispondono agli aiuti menzionati nel suo viaggio. Deve chiamare con urgenza il signor Anfuso, affinché disponga del necessario con la dovuta cautela».
Il messaggio del ministero degli Esteri di Madrid, datato 28 maggio 1951, è diretto all’ambasciatore spagnolo a Roma José Antonio Sangróniz ed è il primo di una lunga serie. Il «signor Anfuso», è Filippo Anfuso, ex ambasciatore della Repubblica Sociale a Berlino, rifugiatosi, dopo due anni di carcere, in Spagna e divenuto in seguito deputato del Msi.
Le prove dei finanziamenti sono contenute in un libro in uscita la prossima settimana, «Il fascismo trasnazionale nel XX secolo» (Bloomsbury editore, in inglese) firmato da due storici, lo spagnolo Pablo del Hierro (università di Maastricht) e l’italiano Matteo Albanese (università di Lisbona). Il volume ricostruisce con dettagli inediti i legami, non solo ideologici, tra il Msi e il franchismo, i viaggi dei politici (Arturo Michelini, Franz Turchi, Ezio Maria Gray tra gli altri) «parlavano direttamente con Franco, cosa rarissima». I soldi arrivavano almeno due volte l’anno, spesso in prossimità delle elezioni, a cominciare dalle regionali siciliane del 1951 e le comunali del 1952 (si votava a Roma e Napoli). Denaro contante, mai dichiarato, sfruttando le valigie diplomatiche.
«Finanziando il Msi - spiega del Hierro, docente di Storia Europea all’università di Maastricht - la Spagna sperava di spostare l’asse del governo italiano a destra, favorendo un accordo tra il partito post fascista e la Dc. Il disegno crollò con il fallimento del tentativo di Tambroni». Il rapporto è continuato sotto altre forme, praticamente fino ai giorni nostri, per esempio nel dare rifugio a terroristi in fuga (Concutelli e Delle Chiaie per fare due esempi).
Per arrivare a stringere dei legami solidi la destra italiana si affida a una rete che ha dimostrato negli anni un funzionamento perfetto, nel Dopoguerra (le fughe per sfuggire ad alleati e partigiani), ma anche in precedenza. Il rapporto tra italiani e spagnoli si consolida con l’aiuto militare nella guerra civile spagnola che il fascismo diede ai golpisti di Franco. I primi contatti ufficiali del Dopoguerra, non a caso, Madrid li stabilisce con l’Ancis, l’associazione nazionale combattenti in Spagna, creata nel 1949 dall’ex militare e avvocato Arcanovaldo Bonaccorsi che divenne un’organizzazione legata al Msi. Il regime, dopo una consulenza di un altro fascista italiano, Gastone Gambara, diede il via libera ai finanziamenti (formalmente per sostenere le famiglie dei cosiddetti «volontari» che Mussolini inviò in Spagna). A questo punto il canale è aperto. Passano pochi mesi e il Msi lo sfrutta. I neofascisti italiani mandano una delegazione guidata dal futuro deputato Roberto Mieville. Lo scoglio è convincere non solo gli amici falangisti (l’ala più ideologica e meno influente del regime), ma anche i conservatori cattolici. A questa corrente appartengono il ministro degli Esteri Alberto Martín-Artajo e l’ambasciatore a Roma de Sangróniz, inizialmente poco entusiasti del dialogo con gli italiani timorosi di perdere i buoni legami con la Dc (specie con Andreotti). Ma il disegno è tutto politico: non si vuole esportare il franchismo in Italia, ma spostare a destra l’asse politico a Roma, favorendo un governo iper conservatore di forte impronta anticomunista. «Prevale l’aspetto politico - conferma Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione Spirito e De Felice, uno dei massimi esperti della storia della destra politica in italia -. Il Msi in quegli anni, dopo l’allontanamento di Almirante, optava per l’Alleanza Atlantica: per la Spagna è più strategico un alleato che abbia lasciato in secondo piano gli aspetti nostalgici».
Il 1960, con la rivolta contro Tambroni, è un anno di svolta: Franco capisce che il rapporto con il Msi non serve a favorirne l’ascesa al potere (il governo gli è precluso), ma al massimo ad alimentare campagne d’opinione pro spagnole. Il rapporto si raffredda, ma si continuano a finanziare piccole pubblicazioni, ma anche il Secolo d’Italia. Le prove dei soldi spagnoli alla destra italiana esistono fino agli Anni Sessanta, «ma è lecito immaginare - conclude del Hierro - che ci si avvicini al 1975», l’anno della morte di Franco.

La Stampa 16.9.16
Percorsi, trame e aiuti dell’Internazionale Nera
Da Lisbona a Madrid fino all’America Latina


A Madrid, in quegli anni ’70, quando la Spagna del Caudillo era patria confortevole d’ogni militante della destra europea, l’Aginter Press aveva il suo piccolo ufficio in un vecchio palazzo silenzioso. La sede centrale di quella «agenzia giornalistica» era Lisbona, dove il suo direttore, Yves Guérin-Sélac, un solido arnese della Oas d’Algeria, godeva delle felici protezioni della corte di Salazar; ma in realtà a contare era Madrid, e a Madrid, spesso al riparo formale dell’Aginter, s’incrociavano i percorsi e le trame del neofascismo europeo.
La geografia politica della destra al potere nel vecchio continente univa alla Spagna franchista anche una ansante dittatura lusitana e i colonnelli protervi di Papadopoulos. Ma Lisbona era con le pezze al sedere, e Atene stentava a far quadrare i bilanci. Perciò Madrid contava più degli altri perché Francisco Franco elargiva aiuti sicuri (senza troppa generosità, però, perché era ben tirchio) ai movimenti della Internazionale Nera che stendeva la sua rete sulla intera Europa.
Il collettore principale era il Msi di Almirante, ma a pescare ancor più in quel rivolo di pesetas erano i gruppi movimentisti che poi sarebbero confluiti nella galassia della destra extraparlamentare, da Ordine Nuovo ad Avanguardia Nazionale (quali che fossero i nomi che si davano), con Stefano Delle Chiaie, Paolo Signorelli, Pierluigi Concutelli, Elio Massagrande, il «giornalista» Giannettini.
Il franchismo aveva due anime, l’una tentata dalla tecnocrazia dell’Opus Dei e l’altra, più tradizionalista, fedele al falangismo «hasta siempre». Ed era questa che teneva i cordoni del finanziamento, seguendo una strategia di condizionamento a destra delle democrazie europee per rompere l’isolamento al quale la sconfitta di Hitler e Mussolini aveva consegnato la Spagna eterna della Croce e dell’Ordine.
Il Msi e i suoi gruppuscoli avevano un peso reale nella vita politica italiana di quel tempo, e questo li faceva privilegiare rispetto alle deboli formazioni neofasciste di Parigi, di Londra, di Bonn, di Stoccolma. E, in più, «los italianos» erano riusciti a intrecciare solide relazioni con gerarchi e profughi del nazismo esiliatisi a Buenos Aires, a Santiago di Cile, e a La Paz, in Bolivia. E sarà in questi Paesi che – nei momenti giudiziari più difficili – troveranno rifugio e amicizie tanti protagonisti della strategia della tensione, a cominciare da Freda e Ventura e Delle Chiaie.
Quando Franco muore, e lentamente muore anche il suo regime, e di pesetas non ce n’è più, i viaggi verso l’America Latina saranno ormai una scelta obbligata.

Corriere 16.9.16
l’intervista
«Prometteva libertà ma il web oscuro rovina milioni di vite»
Il filosofo Žižek: è lo Stato che deve controllare la Rete
intervista di Luca Mastrantonio

qui
http://www.corriere.it/cronache/16_settembre_16/prometteva-liberta-ma-web-oscuro-rovina-milioni-vite-2ba208b6-7b7e-11e6-ae27-bc43cc35ec72.shtml