domenica 25 settembre 2016

Repubblica Cult 25.9.16
Monologhi
Milo Rau analizza l’orrore di Breivik
di Anna Bandettini

“Five easy pieces” regia di Milo Rau in tournée Non c’entra la denuncia, il messaggio, l’intento didattico alla Bertold Brecht. Il teatro politico di Milo Rau scalza gli schemi consueti. Il regista svizzero si è conquistato le attenzioni internazionali con la sua compagnia (e si chiama International Institute of Political Murder), attraverso una straordinaria maestria nel mettere in scena un tema cruciale del nostro tempo come fosse sotto osservazione “scientifica”: non lo usa didascalicamente, non cerca colpi di scena, si limita a proiettarne alcune ombre e verità. In Breivik’s statements un’attrice leggeva le dichiarazioni dell’assassino di Utoya al processo, in Hate radio ricreava lo studio dell’emittente radiofonica che aveva fomentato i Tutu contro i Tutsi in Ruanda. Nel bellissimo Five easy pieces, meritoriamente portato in Italia da Short Theatre, dal Festival di Terni e Contemporanea di Prato, la sfida di Milo Rau diventa più difficile: il tema è la pedofilia, il caso quello di Marc Dutroux, l’elettricista belga che dall’85 al ‘96 aveva sequestrato e seviziato sei bambine, lasciandone morire due. In scena cinque piccoli ambienti per ciascuno dei cinque “monologhi”: il salotto di casa di una delle bambine, quella del papà Dutroux, l’ufficio di polizia, il letto della “prigione”... L’elemento sovversivo è che a recitare sono sette bravi e bei bambini belgi: Rachel Dedain, Maurice Leerman, Pepijn Loobuyck, Willem Loobuyck, Polly Persyn, Elle Liza Tayou, Winne Vanacker di volta in volta nelle parti dei carnefici, degli adulti e delle vittime. Apparentemente una scelta discutibile che diventa essa stessa oggetto di spettacolo: i bambini dicono chi sono, perché recitano, cosa vogliono fare da grandi; durante lo spettacolo, poi, l’attore/regista, Peter Seynaeve, li incita, “piangi di più”, “rifai la scena”, e li riprende con una cinepresa che li proietta su grande schermo dove talvolta ci sono le immagini di attori adulti che “doppiano” quello che fanno i bambini. Insomma, una macchina molto ben studiata per creare un cortocircuito potente tra finzione e verità, tra amore e orrore verso quei bambini. Tanto che il sentimento di imbarazzo, inadeguatezza, quasi di vergogna che suscita è molto più sovversivo di qualunque proclama.