Repubblica Cult 25.9.16
I tabù del mondo
Innamorarsi di sé il vizio capitale oltre ogni limite
Viviamo
nell’epoca del narcisismo, in cui abbiamo sostituito Dio con il culto
dell’Io. La superbia e l’invidia sono i nostri maggiori difetti, due
passioni che Tommaso D’Aquino considerava profondamente collegate.
Entrambe esprimono il disprezzo dell’Altro e ci condannano ad
un’esistenza triste e tormentata
La vita umana ha smarrito ogni
senso di solidarietà per dedicarsi unicamente al potenziamento di se
stessa È il tempo dell’ “Egocrazia” come nuova forma d’ idolatria
di Massimo Recalcati
Per
i padri della Chiesa la superbia è il peccato narcisistico per
eccellenza. Tommaso d’Aquino lo specifica con eleganza: «Il superbo è
innamorato della propria eccellenza». Si tratta di una forma di
idolatria che l’epoca ipermoderna ha particolarmente esaltato: al posto
del culto di Dio avviene il culto del proprio Io assimilato alla potenza
di Dio. Non è forse questo il peccato principe del nostro tempo?
Egocrazia, “Iocrazia”, afferma Lacan. L’ordine della creazione viene
capovolto: l’uomo compete con Dio - come figura radicale dell’alterità -
negando il suo debito simbolico. Farsi un nome da sé senza passare
dall’Altro è la cifra più delirante del nostro tempo. Il culto superbo
di se stessi implica, infatti, il disprezzo cinico per l’altro. La vita
umana smarrisce ogni senso di solidarietà per dedicarsi a senso unico al
potenziamento di se stessa. Per i padri della Chiesa è questa la
“vanagloria” di cui si nutre il superbo: farsi autonomo, indipendente,
cancellare il debito, credere alla follia del proprio Io autonomo e
sovrano. Per questa ragione Lacan ha associato al culto narcisistico per
se stessi la tentazione suicidaria e la pulsione aggressiva come due
facce di una sola medaglia. Il superbo può essere facilmente preda
dell’ira perché il suo bisogno di attaccare l’Altro coincide con il suo
rifiuto di ogni esperienza del limite. Il superbo come l’iracondo si
considera sempre dalla parte del giusto. La sua esaltazione di se stesso
mostra una totale assenza di autocritica che può sfociare facilmente
nella paranoia e nella megalomania. Il superbo è esente da critica
perché è sempre innocente e ingiustamente perseguitato, allontanato,
emarginato, escluso. La colpa è sempre degli altri che non riconoscono
mai appieno il suo valore assoluto. Non è un caso che la clinica
psicoanalitica abbia individuato – in linea qui con la grande saggezza
buddista – nell’eccessivo attaccamento al proprio Io il denominatore
comune delle malattie mentali. Ma, al tempo stesso, la vita del superbo è
una vita triste perché egli si trova nell’impossibilità di entrare in
relazione con un Altro che disprezza supremamente. Il suo destino non
può che essere quello del più acuto isolamento. Non a caso la passione
più prossima a quella della superbia è l’invidia che, sempre per i padri
della Chiesa, viene considerata come il “peccato dei peccati”, il vizio
capitale più grande. Il termine invidia deriva dal latino in- videre
che significa guardare male, con occhio malevolo, con malocchio.
L’invidia è una patologia dello sguardo? L’invidioso soffre per ciò che
vede. Egli non sa tollerare la felicità e la gioia altrui. Come scrive
Tommaso d’Aquino la passione invidiosa sorge dalla tristezza causata dai
beni altrui. L’invidioso è un essere che vive nelle tenebre,
nell’oscurità, covando rancore e frustrazione verso il mondo. È,
paradossalmente, l’altra faccia, la faccia in ombra, della superbia. Il
suo sguardo, come mostra Nietzsche nella Genealogia della morale, è
“torvo” e “risentito”. L’invidioso non sopporta la vita degli altri, che
immagina, contrariamente alla propria, sempre piena. Non è poi così
strano che la superbia e l’invidia siano considerate anche da Tommaso
passioni collegate. Il superbo non può sopportare la vista di altri che
vantano maggior prestigio del suo; l’invidia aderisce alla superbia come
l’edera al muro. Anche, o soprattutto, quando la superbia si maschera
di falsa umiltà. È una patologia tipica dell’uomo religioso: la
mortificazione e il sacrificio di sé vengono esibiti come manifestazione
di un’elevazione morale superiore finalizzata a scavare nell’altro
senso di colpa e di indegnità.
Il carattere unico dell’invidia tra
tutti i vizi capitali è che è il solo peccato dove il godimento diretto
viene escluso. Non è peccato di gola, non è peccato di ira, di
lussuria, né di affermazione superba di sé. L’invidioso non gode di
qualcosa se non del suo tormento senza pace. La sua carriera, come
quella dell’odio, secondo una sottile definizione di Lacan, è sempre
“senza limiti”. Non c’è, infatti, mai un fondo, una sazietà, un
appagamento definitivo per l’invidia. Nemmeno la morte dell’invidiato
può placare la spinta invidiosa. Perché l’invidia non è mai invidia “di
qualcosa” (di una proprietà o di una qualità particolare
dell’invidiato), ma della sua vita, della vitalità dell’altro. Quello
che l’invidioso non sopporta è la manifestazione della vita differente
dell’altro nella sua forza generativa. Mentre muore d’invidia osservando
l’invidiato, il soggetto invidioso riconosce implicitamente – senza mai
ammetterlo - l’eccellenza di chi invidia e si tormenta
dall’impossibilità di raggiungere lo stesso prestigio. L’invidioso è, in
realtà, già morto e per questo non può che invidiare la vita
dell’altro. Non si invidiano mai povere anime, ricorda Aristotele, ma
solo coloro che avvertiamo prossimi a noi stessi, così come
originariamente Caino ha invidiato Abele. Invidiamo l’Altro come
incarnazione del nostro Ideale inconfessato. Per questo l’invidia è
sempre tendenzialmente tra simili e mai tra diversi; tra vicini, tra
fratelli, tra colleghi, persino tra amanti, ma non tra sconosciuti. Non è
un caso che la diffamazione sia una della sue manifestazioni più pure:
essa punta a fare cadere l’invidiato, ad umiliarlo, a infangarlo
colpendolo nella sua immagine perché la sua presenza nella vita
dell’invidioso è talmente costante e invadente da risultare
insopportabile. La maldicenza vorrebbe corrodere definitivamente
l’essere dell’invidiato, quell’essere che è molto frequentemente il più
inconsciamente amato dall’invidioso.