domenica 25 settembre 2016

Repubblica Cult 25.9.16
Giulio Giorello
“Vivo accanto a filosofia e matematica e non mi sono mai sentito solo”
I maestri, gli amici scomprsi all’improvviso, la partita a scacchi con la morte: ricordi dello studioso che sa sposare Wittgenstein a Topolino
“Non pubblicarono Feyerabend forse per il sospetto che avesse flirtato con i nazisti: misteri del mercoledì dell’Enaudi”
colloquio con Antonio Gnoli

Giulio Giorello (Milano, 1945) è un filosofo, matematico ed epistemologo tra i più autorevoli in Italia È stato inoltre Presidente della Silfs, la Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza

Il giorno in cui Marco Mondadori si inabissò con la repentinità di un colpo duro e inaspettato, Giulio Giorello era lontano dall’amico fraterno. «La morte distante degli altri», oggi dice, «manca spesso di chiaroscuro: un neon lontano che brilla in modo uniforme e opaco. Non è la propria morte con la quale siamo prossimi. Ho vissuto quella di Marco nella scansione secca di un click: prima era vivo, poi non c’era più. E ora che ci penso so che quella fine mi ha sfiorato, toccato, reso per un attimo il più inebetito tra gli uomini». Solo qualche mese fa Giulio ha rischiato di morire per un accidente al cuore. Ci conosciamo da anni. Ammiro la sua versatilità. Il suo essere sulle barricate dell’infanzia, come un ragazzo della via Pal e un attimo dopo diventare il serio professore che anima i discorsi di logica e di filosofia, che sguiscia con compunta leggerezza tra i classici della letteratura e quelli del fumetto.
Cos’è per te la versatilità?
«Se fossi stato uno sportivo avrei praticato il decathlon. È un modo di stare tra le discipline e la vita. Nella mia niente è stato inaccessibile. Come se tutto fosse a portata di mano».
È il privilegio delle persone intelligenti.
«Ma anche fortunate, trovare i giusti maestri, sfruttando le occasioni in qualche modo irripetibili».
Chi sono stati i tuoi maestri?
«In primis Ludovico Geymonat. A lui devo tutto: il gusto per la curiosità che non è solo scientifica, l’apertura anche a quelli con cui non si è d’accordo. Mi laureai con lui nel 1968, con una tesi di filosofia matematica. Era l’autunno. C’erano state agitazioni studentesche a Roma e a Milano. Cortei in Francia, manifestazioni negli Stati Uniti. Il mondo sembrava che stesse cambiando».
Mentre tu studiavi matematica.
«Feci una tesi sull’ipotesi del continuo avanzata da Georg Cantor. Approfittai degli ultimi anni di filosofia per occuparmi anche di geometria e algebra. Dopo la laurea in filosofia passai a studiare matematica a Pavia. E lì c’era un’altra figura eccezionale: Enrico Magenes, matematico ed ex partigiano cattolico. Magenes aveva relazioni strettissime con i più grandi matematici francesi, russi e americani».
Hai conosciuto André Weil?
«Purtroppo no, ma ho divorato i suoi testi sulla teoria dei numeri. Sono di una bellezza e nitore straordinari».
Tra l’altro era fratello di Simone Weil.
«Di tre anni più grande. Nato nel 1906, morì negli anni Novanta a Princeton dove si era trasferito. Sono state due figure straordinarie per il talento con cui nei rispettivi campi hanno pensato. Di lui mi parlò a lungo il suo amico Jean Dieudonné, che fondò insieme ad altri matematici il gruppo Bourbaki. Gran personaggio. Per un certo periodo gli fui accanto all’università di Nizza. Era un uomo collerico e geniale».
Mi ha sempre incuriosito la formazione di questo gruppo di matematici che si firmava Nicolas Bourbaki.
«I primi approcci risalgono alla metà degli anni Trenta. Anche Simone Weil partecipò a qualche riunione. Poi negli anni Cinquanta il gruppo cominciò ad avere influenza sul mondo matematico. Provò a darne un nuovo impianto».
Nuovo in che senso?
«Maggiore chiarezza nelle dimostrazioni e dunque maggiore formalismo. Il loro obiettivo era presentare i ragionamenti matematici in forma assiomatica».
Ti senti un matematico?
«Non credo di esserlo. Dieudonné sosteneva che la matematica è una pratica di vita. Non sono mai stato un matematico a tempo pieno che risolve problemi e dimostra teoremi. L’ho fatto sporadicamente, nella consapevolezza che comunque il primo amore restava la filosofia».
E la matematica era un tradimento?
«No, affatto. Non mi sentivo un bigamo delle due culture. Ho utilizzato la matematica come fosse una cassetta di attrezzi per trattare in modo nuovo vecchi problemi della filosofia».
Colpisce una certa solitudine del matematico.
«Cosa intendi?»
Numeri e forme, così perfetti, sembrano imprigionarlo.
«È un mondo chiuso e aperto contemporaneamente. È vero che i matematici godono di un certo isolamento. Ma poi condividono le passioni di tutti, hanno le medesime curiosità intellettuali, mi viene in mente il mio amico René Thom».
L’uomo delle catastrofi.
«Ma sai, l’espressione “Teoria delle Catastrofi” non l’ha inventata lui. Mi pare che fu Pieter Zeeman a coniarla».
Però “bucava”.
«Ah certo! Ci sono locuzioni che colpiscono la fantasia e sconfinano dal loro ambito specialistico. Pensa a espressioni come “Neuroni Specchio”, “Teoria delle stringhe”, o il più gettonato “Bosone di Dio”, immediatamente comprendi che un contenuto complicatissimo può involontariamente attrarre la gente comune».
Dicevamo di René Thom.
«Seguii per un certo periodo le sue lezioni in una università non distante da Parigi. Andai a trovarlo in Alsazia dove viveva. Ricordo un certo impaccio iniziale, una timidezza che poteva essere scambiata per freddezza. In realtà si dimostrò un uomo generoso, oltreché studioso di talento. Mi chiese con chi avevo lavorato in precedenza. Gli dissi che uno dei miei riferimenti era stato Dieudonné. Ah! Esclamò, raccontandomi di una feroce polemica che aveva avuto con il grande matematico».
Cos’è che non gli andava?
«L’eccesso di formalismo che considerava vuoto e rigido. Aggiunse che il gruppo Bourbaki aveva imbalsamato la matematica riducendola a una mummia. Curiosamente si interessò alle teorie di Thomas Kuhn e gli sembrava oltremodo utile la considerazione che ci sono momenti in cui la scienza ripensa radicalmente se stessa».
A questo proposito tu sei stato uno degli artefici del dibattito epistemologico degli anni Settanta.
«Invitai Thom a Spoleto per un confronto pubblico con Paul Feyerabend che aveva da poco pubblicato in italiano Contro il metodo».
Feyerabend si definì un epistemologo anarchico, il che non faceva che aumentare la confusione.
«Tu dici? Ho l’impressione che “epistemologia anarchica” sia un’altra di quelle locuzioni particolarmente efficaci per arrivare al grande pubblico. Mi confessò che l’aveva inventata apposta. E che conteneva un senso polemico contro l’affermazione che la scienza fosse lo strumento indispensabile per trovare un ordine del mondo. Molto banalmente Paul rivendicava la necessità di non farsi condizionare dalle regole scientifiche.
Contro il metodo
fu un libro importante nel dibattito di quegli anni. Rifiutato da Einaudi e pubblicato da Feltrinelli».
Sai perché fu respinto?
«Boh, i misteri dei mercoledì einaudiani quando il sinedrio si riuniva e decideva la politica culturale. Temo che nei riguardi di Feyerabend ci fosse il sospetto che avesse flirtato con i nazisti».
Ed era vero?
«Penso sia una sciocchezza. Si arruolò come soldato austriaco nell’esercito tedesco e durante un incursione aerea fu ferito perdendo l’uso delle gambe. Fu anche consulente di Bertolt Brecht per il dramma su Galileo. Mi raccontò che amava Wittgenstein e che avrebbe volentieri studiato con lui se non fosse morto. “Mi toccò andare con Popper!” commentò ironico. Alla fine divenne molto amico di Imre Lakatos, che fu un grandissimo filosofo della scienza».
Ricordo un episodio piuttosto oscuro nel quale Lakatos fu coinvolto.
«Ti riferisci probabilmente alla tragica storia di una ragazza diciannovenne che si avvelenò con una pasticca di cianuro. Il suo nome era Eva Iszàk».
Sì, è lei.
«Non ne so molto, ma la sorella tirò fuori il vero motivo di un suicidio apparentemente incomprensibile. Sia Imre che Eva erano ungheresi. Ed entrambi facevano parte di un gruppo anticomunista. Lei venne scoperta e fu deciso, affinché non rivelasse i nomi degli altri componenti, che ingerisse del cianuro. Una scelta terribile».
Forse anche indecente visto che furono gli amici a indurcela.
«Sono d’accordo. Comunque Lakatos andò via dall’Ungheria nel 1956 per rifugiarsi a Londra. Con Feyerabend avrebbe dovuto scrivere Pro e contro il metodo.
Ma non fece in tempo: morì nel 1974, dopo avere insegnato a lungo alla London School of Economics».
A parte i tuoi interessi scientifici hai rivendicato l’importanza di John Stuart Mill. Negli anni in cui cerchi di occupartene la cultura di sinistra va in tutt’altra direzione.
«Con Marco Mondadori scoprimmo il saggio Sulla libertà di Mill e lo pubblicammo nel 1981. Ci attaccarono da tutte le parti. Il Pci e i suoi intellettuali spararono a palle incatenate. Il più rissoso fu il fisico Carlo Bernardini, col quale in seguito saremmo diventati amici».
Cosa li aizzava?
«Mill era un liberale, utilitarista. A noi piaceva molto l’idea della “sovranità del consumatore”, per cui ciascuno è arbitro di ciò che gli piace o non gli piace. Unico giudice della propria vita. È il principio della società aperta. Ma spiegare questa cosa alla fine degli anni Settanta, nel fumo delle ideologie sinistrorse, fu impossibile».
Accennavi alla presenza di Marco Mondadori.
«Fu come un fratello. Ci conoscemmo al liceo Berchet. Ricordo che il nostro professore di religione era Don Giussani. L’antipatia nei suoi riguardi rinsaldò la nostra amicizia».
Antipatia dovuta a cosa?
«Era una figura a suo modo carismatica e intollerante. Metteva molto entusiasmo nelle cose che faceva e ho l’impressione che riuscisse a fare breccia soprattutto negli animi più fragili. Con lui sia Marco che io avemmo ripetuti scontri».
Andare al Berchet di Milano era da ragazzi molto privilegiati.
«Il padre di Marco era Alberto Mondadori che creò il Saggiatore, mio padre era un semplice assicuratore che poi sarebbe diventato dirigente. Non è che godessi di tutti questi privilegi».
Marco Mondadori morì in che anno?
«Nel 1999. Fu una morte improvvisa. Si afflosciò mentre sistemava dei volumi in una libreria. Erano i giorni di Pasqua. Dal luogo di vacanza dov’ero ricevetti la telefonata. La linea era disturbata. Non capivo se era morto o no. Alla fine compresi. Allo stupore subentrò un dolore indicibile. La sua vita è stata breve, intensa e schiva».
Pensi mai alla morte?
«A volte sì. Per cavarmela con una battuta suggerirei di imparare a giocare a scacchi molto bene, prima di incontrarla. Fuori di metafora continuo a cercare piacere nel vivere. Soprattutto ora che ho avuto un incidente di percorso».
Ti va di parlarne?
«Non c’è nulla di segreto. Qualche mese fa ho avuto una trombosi alla gamba sinistra e un doppio principio di infarto. Mi sono salvato grazie alla prontezza e abilità dei medici».
Che cosa ricordi di quel momento?
«Nulla, proprio nulla. Buio prima e dopo. È strano. Ma è come se una forma di vuoto mi protegga da quel trauma. Le conseguenze sono state un po’ pesanti. Ho cercato di recuperare le mie attività: scrivere, leggere, fare lezione, partecipare a qualche seminario, viaggiare. Mi piace ancora molto viaggiare. Sono stato recentemente in Portogallo e a Dublino».
Ti sei occupato di un sacco di cose. Sei dispersivo?
«In me ha funzionato lo stimolo della curiosità e il bisogno di non lasciarsi intrappolare dalle cose».
Al punto da mettere insieme Milton, Gilgamesh e Topolino?
«Perché no? Milton è stato uno dei due grandi fari del seicento inglese. L’altro era Shakespeare. Mi piace Milton: non fa sconti ai reazionari. Gilgamesh è un mito sumerico che ci sta alle spalle. Me ne parlava mia madre e non ho mai capito da dove avesse tirato fuori le sue conoscenze accadico sumeriche. Topolino è la mia infanzia. Pensa, che attraverso la grande parodia dell’inferno di Topolino, scoprii per la prima volta l’esistenza di Dante».
Cosa leggevi a scuola?
«Al liceo invece di leggere Manzoni leggevo l’Ulisse di Joyce e a Pascoli preferivo i Canti pisani di Pound».
Ti tuffavi nel difficile.
«Sono due opere profondamente architettoniche, solo che è un’architettura volutamente rovesciata, quindi hai questa impressione a labirinto. Non a caso uno dei protagonisti del romanzo di Joyce si chiama Dedalus, l’artista che costruisce il suo labirinto intellettuale. Lo stesso accade con Pound che mi dà l’impressione di cantare come una cicala su una specie di ammasso di rifiuti che è l’Europa con le sue crisi. Pound gioca con l’arte del frammento, Joyce con il labirinto, ma in entrambi scorgi un grande disegno unitario».
Come definiresti la tua vita?
«Non sono un’isola, ma un arcipelago. Non mi sento mai solo, né autonomo. A volte penso che avrei voluto un figlio. Da giovane non mi interessava. Credo di avere avuto molto dalla vita. E sarebbe stato interessante trasmettere qualcosa a un figlio. Ma è tardi. Ogni tanto mi visita questo strano sentimento. Non è desiderio. È soltanto nostalgia».