Repubblica Cult 18.9.16
I tabù del mondo
Le tante facce di Don Giovanni prima dell’inferno
Quella
del seduttore, raccontata da Mozart a Goldoni è la storia di una spinta
a conquistare e possedere le sue prede non per amore, ma per puro
spirito di contabilità. L’ostacolo che questa pulsione incontra è
l’inesistenza della donna ideale. E il movimento perpetuo resta
l’espressione di una coscienza infelice
Per Kierkegaard è il
paradigma della vita estetica, che non sa essere seria, che odia la
ripetizione e che non sa esporsi al bivio tragico della scelta
di Massimo Recalcati
Quale
tabù vorrebbe sfatare il mito moderno, ma imperituro, del Don Giovanni?
Il conformismo borghese della fedeltà? La rappresentazione fobico-
moralistica della sessualità? L’istituto etico inviolabile del
matrimonio? Gli stereotipi della convivenza civile tra uomini e donne?
La
storia complessa di questo personaggio che trova in Mozart la sua
massima celebrazione, ma che è stato ripreso da autori diversi come
Moliere, Goldoni, Kierkegaard, Tolstoj e molti altri, non deve farci
perdere di vista l’essenziale che la sua leggenda porta con sè. A prima
vista il desiderio del Don Giovanni riflette il fantasma inconscio (o
conscio) del desiderio maschile: godere del proprio fascino
irresistibile, trasformare la donna in conquista, allungare
infinitamente la lista delle proprie imprese seduttive, “farsele tutte”.
La sua più immediata realtà è quella della spinta irresistibile a
conquistare e a possedere le sue prede. Ma il primo ostacolo che questa
spinta è destinata a incontrare è quello che in nessuna delle donne
sedotte, per quanto esse siano un numero spropositato, potrà mai trovare
la donna che ricerca perché, come ha insegnato Lacan, La Donna non
esiste. Il potere sensuale del Don Giovanni è certamente, come egli ha
fatto notare nel Seminario XX, quello di riuscire a fare sentire ogni
sua preda unica nella sua particolarità — il Don Giovanni ama una per
una le sue prescelte -, ma è altrettanto vero che nessuna di esse è mai
davvero l’unica. La conquista della donna non è animata dall’amore ma
dalla contabilità: ogni donna allunga orizzontalmente la lista delle sue
imprese ma non è La Donna. In questo movimento perpetuo da una donna
all’altra il desiderio del Don Giovanni resta pertanto l’espressione di
una coscienza infelice: sull’amata cade l’ombra di chi ancora non
possiede, dell’Altra donna, perché amarne davvero una sola sarebbe come
tradirle tutte.
Il Don Giovanni non si interessa della mancanza da
cui scaturisce l’amore. Anzi, Lacan nel Seminario X fa notare come esso
sia un fantasma femminile: avere finalmente un uomo che non si
interessa del loro amore e della loro mancanza, ma solo del loro
godimento e del loro corpo sessuale; farsi possedere da uno straniero
come pura incarnazione della pulsione e non del desiderio. Il Don
Giovanni sarebbe cioè l’emblema di un uomo a cui non manca niente, un
puro strumento di cui godere che non conosce né detumescenza, né
castrazione. Esso realizza l’”auspicio” femminile che ce ne sia almeno
uno che “ce l’abbia” davvero, sempre, che non possa mai perderlo...
In
Kierkegaard Don Giovanni è invece il paradigma della vita estetica, di
una vita che non sa essere seria, che odia la ripetizione, che non sa
esporsi al bivio tragico della scelta. Il seduttore consuma la sua vita
inseguendo la volatilità aleatoria di incontri che non lasciano alcuna
traccia. Egli ama la vita nella sua differenza molteplice ma in realtà
non riesce ad accedervi veramente. In questo la sua vita ricorda quella
temeraria di Ulisse che non rinuncia mai a seguire la spinta della
propria curiosità senza però trovare mai la sua soddisfazione. Per
questa ragione Kierkegaard assimila lo spirito di Don Giovanni a quello
della musica e della sua estasi sensibile: egli insegue costantemente
l’attimo senza riuscire a dare consistenza e continuità alla sua
esperienza. Il Don Giovanni declina in questo modo una versione solo
estetizzante del desiderio: il suo perpetuo rilancio coincide con la sua
perpetua insoddisfazione. L’arte del seduttore non è, come il Don
Giovanni libertino crede, una manifestazione della sua libertà, ma la
manifestazione della sua schiavitù: il godimento assume il carattere di
un imperativo che prescinde da ogni contenuto. Molto pertinentemente la
diagnosi formulata da Kierkegaard è quella di “isterismo dello spirito”.
Nel linguaggio di Lacan il desiderio isterico è, infatti, il desiderio
che ricerca attivamente la propria insoddisfazione, è un desiderio che
non conosce la possibilità della sua realizzazione, ma differisce questa
possibilità in un altrove impossibile da raggiungere. Il gioco del Don
Giovanni rivendica, dunque, solo apparentemente l’entusiasmo nei
confronti della vita sensibile perché finisce per uniformare la varietà
del mondo allo specchio della propria volontà narcisistica.
È il
caso di Nerone — descritto da Kierkegaard — il cui sguardo melanconico
osserva le fiamme del proprio crimine che avrebbero invece dovuto
sancire il suo successo eterno. Come Nerone, anche Don Giovanni non
conosce senso di colpa. Egli decide con fierezza di essere un
impenitente, di giocare con la verità; ama la maschera, il trucco,
l’artificio. La sola Legge che conosce è quella del proprio godimento
temerario. Per questo ai suoi occhi la Legge del Padre non può essere
che una Legge inumana e severa, non può che assumere la forma patibolare
della sentenza. Ma la libertà che vuole rigettare la Legge del Padre,
senza coglierne, in realtà, la funzione autenticamente liberatrice, non
può che trascinare Don Giovanni verso la distruzione di sé. Il rifiuto
ostinato della Legge, o, meglio, il suo più totale fraintendimento (la
Legge per il libertino è solo repressivamente e perversamente
contrapposta al desiderio), comporta, almeno nella versione di Mozart,
il suo ritorno trasfigurato nella figura altrettanto inquietante del
Convitato di pietra che getta l’impenitente Don Giovanni tra le fiamme
dell’inferno.