Repubblica Cult 18.9.16.
Vittorino Andreoli
“Amo i criminali e gli emarginati sono metà psichiatra e metà matto”
La scoperta dei manicomi, il rapporto tra malattia e arte
Breton e Dubuffet...
Lo studioso racconta la sua vita e le sue delusioni da scrittore
colloquio con Antonio Gnoli
Seduto
nel vasto studio di un antico palazzo guardo le sue ipnotiche
sopracciglia: sembrano una coppia di cani pechinesi accucciata su due
arcate vagamente gotiche. È un uomo insolito Vittorino Andreoli,
professione psichiatra. La testa ricorda un cespuglio battuto dal vento.
Ha da poco consegnato la propria esistenza a un libro pieno di dettagli
( La mia corsa nel tempo, edito da Rizzoli). In questa Verona, di arene
e balconi celebri, dilatata dall’innaturale caldo settembrino,
Vittorino mi appare come un attore shakespeariano: «La mente è il mio
teatro, la vita il mio labirinto», dice, sapendo che anche recitare è
una proiezione dell’anima.
Le piace recitare?
«Chiunque usi
la parola in qualche modo recita. La mia maschera, cioè il mio volto, ha
i tratti inconsueti della stravaganza. Avrebbe attratto l’attenzione di
Lombroso che con le sue teorie fece più danni alla scienza di un
prete».
Intende che l’avrebbe scambiata per un criminale?
«Sicuramente.
Le sopracciglia sono quelle di un primate, ho perfino una bozza
frontale e guardi i capelli: un ventaglio scomposto e irrisolto. Magari
sfuggente. Intricato come un labirinto in cui la vita si smarrisce».
È questa la nostra condizione?
«La
vita è un percorso complesso e a ostacoli. Tentiamo, spesso alla cieca,
di seguire nuove vie, ma ci ritroviamo sempre negli stessi posti. Il
termine più banale che si possa accompagnare alla vita è libertà. Se ne
parla continuamente. La si invoca, la si ricerca, la si difende. Ma alla
fine tutti cerchiamo le stesse cose. Vogliamo le stesse cose. Pensi
all’amore».
Che c’entra l’amore?
«È la negazione della
libertà. Impedisce di pensare e di muoversi. Nel nome di un’autenticità
provvisoria dimentichiamo chi siamo».
È il giudizio dello psichiatra o dell’uomo deluso?
«Deluso
da chi o da cosa? Dico semplicemente che l’attaccamento tra due persone
toglie la libertà, ma spesso aiuta a vivere. Aveva ragione Freud».
Ragione in che senso?
«La
condizione umana contempla anche la paura della morte. Reagiamo
cercando di non stare soli. Creandoci dei legami. Perfino il narcisista,
slegato da tutto, ha bisogno di gente che lo guardi».
Come psichiatra quando nasce?
«Nel
1959, quando visitai il manicomio di Verona. Il professor Trabucchi mi
guidò lungo i padiglioni, rigorosamente divisi tra maschi e femmine.
Sembrava di essere discesi all’inferno. Quando lasciammo l’ultimo dei
padiglioni Trabucchi mi chiese se ero ancora dell’idea di specializzarmi
in psichiatria. Risposi che non potevo più ignorare quel degrado umano,
a quel punto mi fece visitare un piccolo atelier separato dal resto».
Cosa vide?
«Un
gruppo di matti che disegnavano e dipingevano. Quella scoperta mi
avvicinò al lato creativo della follia. C’era uno in particolare tra
questi matti che dipingeva in maniera straordinaria. Pensai, dopo un
po’, che valesse la pena mostrare a qualcuno le sue opere. Presi la
decisione di portarle a Parigi».
Perché proprio Parigi?
«Jean
Dubuffet aveva fondato la compagnia dell’Art Brut, un movimento che
ricercava la spontaneità del gesto artistico nella patologia mentale.
Ricordo l’emozione di quell’incontro. Vidi un uomo piccolo, calvo, con
due enormi orecchie. Ben presto però l’emozione si trasformò in
delusione. Alla vista dei dipinti di Carlo Zinelli percepii l’incertezza
di Dubuffet».
Provocata da cosa?
«Mi disse che trovava
belle le tele di Zinelli ma che gli sembravano il risultato di
suggerimenti e condizionamenti esterni. Insomma poco “brut”. Troppo
raffinato».
Lei come reagì?
«Mi sembrò un inutile sfoggio di
presunzione. Spiegai in cosa consisteva la schizofrenia di Zinelli. A
quel punto mi suggerì di andare a trovare André Breton».
Che anno era?
«Mi
pare fosse il 1962. Raccontai a Breton che Zinelli si era scoperto
pittore un giorno che, raccogliendo dal cortile del manicomio la
scheggia di un mattone, aveva cominciato a disegnare sulla parete di uno
dei padiglioni. E grande fu la meraviglia di chi vide quello che aveva
realizzato ».
Breton come commentò le opere di Zinelli?
«Le
trovò straordinarie. Con un passato nel mondo della psichiatria, Breton
aveva perfettamente compreso il legame misterioso tra arte e follia».
Ci sono numerosi esempi.
«Non
tutti nella stessa direzione. Ad Antonin Artaud diagnosticarono la
schizofrenia. Fu preso in cura da Gaston Ferdière, ricoverato nella
clinica di Rodez e sottoposto a una quantità impressionante di
elettroshock. Ferdière era convinto che Artaud fosse un artista, ma
perché potesse esserlo totalmente doveva estirpargli la malattia! Per
fortuna Breton riuscì, grazie alla sua influenza, a liberarlo e a farlo
tornare trionfalmente a Parigi».
Un artista deve avere la coscienza del proprio lavoro?
«Ligabue
non era certo consapevole della propria grandezza. Lo stesso Van Gogh
oscillava in un universo sostanzialmente distruttivo. Era schizofrenico o
affetto da epilessia psicotica? Ci fu un acceso dibattito negli anni
Cinquanta e Sessanta tra gli psichiatri. Mi incuriosì la ricerca che in
proposito aveva svolto Franciska Minkowska che, basandosi sull’analisi
delle opere, concluse che Van Gogh era affetto da disturbi
comportamentali».
E dunque?
«Che c’era un nesso preciso tra
la patologia mentale e il fatto artistico. Intendiamoci, non tutti i
malati di mente possono trasformarsi in artisti. Scrissi una lettera
alla Minkowska chiedendole di incontrarla. Mi rispose dopo qualche
settimana il marito, Eugène Minkowski, annunciandomi che la moglie era
morta. Dal momento che nella lettera dichiaravo il mio interesse
specifico per l’argomento, mi invitò ad andare a trovarlo».
Minkowski fu uno dei fondatori della fenomenologia psichiatrica.
«Insieme
a Binswanger rifletté sulla trasformazione del disturbo mentale in
relazione al tempo e allo spazio vissuti. Già Jaspers aveva capito che
l’esistenza di ognuno di noi si svolge dentro una temporalità dilatata. E
prima ancora, Husserl si era reso conto del rapporto tra l’esperienza
del tempo e la nostra coscienza».
Cosa c’entra la patologia mentale?
«Minkowski
capì che nel paziente schizofrenico, o anche in quello melanconico, il
continuum temporale si spezza. La consapevolezza del presente tende ad
annullarsi. Detta in altre parole c’è una frattura tra il tempo dell’Io e
il tempo del Mondo».
La creatività artistica si pone tra queste due esperienze?
«Diciamo
che è una possibilità, non la sola. Io ho imparato a vederla in alcuni
matti che ho avuto in cura. Ecco perché ho odiato Cesare Lombroso, un
altro veronese come me, che nel matto ritrovava solo il degenerato».
Ha conosciuto Basaglia che, tra l’altro, era nato non distante da qui?
«Basaglia
era veneziano. L’ho conosciuto benissimo: un uomo di grande
intelligenza e fascino. La sua fortuna, paradossalmente, fu di non
conoscere a fondo la psichiatria e così ha potuto cogliere un aspetto
che sfuggiva ai tanti positivisti: l’influenza dell’ambiente, il cui
corollario fu: se vogliamo curare i matti togliamoli dai manicomi».
Beh, come lei, anche Basaglia colse nella fenomenologia psichiatrica una possibile via di uscita.
«Se
è per questo allargò i suoi interessi a tutto l’esistenzialismo e credo
che in qualche modo contò molto l’influenza della moglie, Franca
Ongaro. Ma alla fine la sua psichiatria fu eminentemente un fatto
politico. Lo riconobbe anche Hrayr Terzian che fu un grandissimo
neuroscienziato che appoggiò in pieno la legge 180».
Di Terzian sentii parlare la prima volta da Giacomo Rizzolatti.
«Credo
sia stato un suo allievo a Padova. Era un uomo totalmente fuori dalle
convenzioni. E fu oltre che uno straordinario insegnante, un eccellente
rettore all’università di Verona. La sua vita meriterebbe un romanzo».
Lei di romanzi ne ha scritti diversi. Cosa l’ha spinta?
«Sono
un uomo abitato dai sogni. Convinto che uno psichiatra non debba
necessariamente essere solido e imperturbabile. Come quei robot che
agiscono senza emozione. Insomma, non faccio due mestieri. Nelle mie
narrazioni continuo ad essere lo psichiatra che scava nella vita
dell’uomo».
Quando le è nato l’impulso alla narrazione?
«Fu a
causa della lettura delle cartelle cliniche dei malati in manicomio.
Erano disumane. Descrivevano il grado zero dell’individuo: ha mangiato,
ha dormito, ha gridato, si è masturbato. Ricordo che quando vidi la
cartella clinica di Carlo Zinelli, l’artista del quale le dicevo, rimasi
indignato. E fu quella indignazione a spingermi a scrivere il mio primo
romanzo».
Con quali effetti?
«Se si riferisce all’impatto sul pubblico e, soprattutto, sulla critica, direi zero. Ignorato».
Come ha reagito?
«Sono
un autore di successo, i miei libri di saggistica vendono, scalano
puntualmente la classifica. Godo di un grande riconoscimento. Eppure, i
miei romanzi è come se non esistessero. Come se non li avessi mai
scritti. Non ho reagito bene».
Se ne faccia una ragione.
«Perché
mai? La scienza come sa impiega una metodologia in cui si descrive un
fenomeno in modo neutro. La narrazione mi permette invece di essere
dentro quel fenomeno, di raccontare attraverso di esso come sono: le mie
paure, la mia fragilità, le mie malinconie».
Le piace denudarsi?
«Mi sembra che attraverso il romanzo rappresento meglio me stesso e il mio lavoro».
I critici che dicono?
«Niente, non gliene frega niente! Preferirei che dicessero: è un romanzo che fa schifo, piuttosto che essere ignorato ».
Di qui il lamento.
«La
lamentazione ha un aspetto infantile e di solito è una sorta di
premessa alla consolazione che non ho. Aggiungo che odio anche gli
elogi».
Vorrei vedere la sua cartella clinica.
«Lei scherza. Siamo una società che vive nello stigma e nella permanente disapprovazione sociale».
Chiede di essere trafitto.
«Vorrei non essere ignorato. Leggetemi e giudicatemi ».
Mi scusi, ma è una pretesa ridicola.
«La
lamentazione è sempre un po’ ridicola. Spieghi perché un uomo non deve
essere ridicolo: ci sono cardinali ridicoli, politici ridicoli,
intellettuali ridicoli; perché bisogna pensare che uno psichiatra non
debba esserlo? L’uomo è capace di cose ridicole. Per essere serio devi
essere anche ridicolo. Mai prendersi troppo sul serio».
Mi sembra una conclusione furba.
«Non
mi ritengo affatto furbo. Avrei potuto fare una brillante carriera
negli Stati Uniti. Mi sono specializzato prima a Cambridge nel
dipartimento dove Watson e Crick scoprirono la struttura del Dna. Poi
sono stato alla Cornell di New York e nei laboratori della Harvard
lavorando a fianco delle migliori menti, come Leonard Ross e Seymour
Kety. Le mie ricerche sulla serotonina erano considerate sorprendenti».
Perché ha deciso di andarsene?
«Perché
alla fine non era il cervello che mi interessava ma chi lo aveva, cioè
l’uomo. Nei suoi difetti, nelle sue patologie, nei suoi estremismi. Non
sono un furbo, sono solo un sopravvissuto a tutto questo. Non credo
nella felicità del genere umano, ma difendo la gioia, il momento in cui
io e l’altro ci riconosciamo ».
Quanto si sente cattolico?
«Lo
sono stato fino a quando non fui espulso dall’Azione cattolica. Il
Veneto è terra di religione e di follia. Ho preferito quest’ultima. In
fondo sono per metà psichiatra e per metà matto».
Ha scritto: non mi sono mai amato.
«E
continuo a non amarmi. È la distanza con i miei ideali, con ciò che
avrei voluto essere e non sono riuscito a diventare, a dirmelo. Ho
conosciuto gente straordinaria, avrei voluto essere come loro. Ho 76
anni, sono sposato da 49. Le poche storielle che posso avere avuto non
mi hanno distolto dal rispetto e dall’amore per mia moglie».
Davvero, lei è un curioso soggetto.
«La mia vita è un enigma che neppure Touring avrebbe risolto».
Ama i criminali, i folli e disprezza se stesso.
«Non
mi disprezzo, mi sopporto appena. Siamo il risultato di 80 miliardi di
neuroni. E in fondo non so chi sono. La sola persona che ho amato
veramente è mio padre. Proveniva da una famiglia numerosa. Cominciò come
manovale, poi muratore, infine mise su una impresa tutta sua. Qui a
Verona costruiva ponti. Mi manca la sua serenità, la sua dimensione
etica».
Nessun conflitto paterno?
«Nessuno, solo nostalgia. Non credo nella psicoanalisi, non credo che i miti spieghino il nostro inconscio».
Crede in Dio?
«Non più. Ho visto troppa sofferenza – tra i carcerati, le prostitute, i drogati, gli assassini – per credere».
Predilige la retorica dell’emarginato?
«Non
è retorica, semmai patologia. Non si può fare retorica con una madre
che uccide il proprio bambino. Non so cos’è il senso della vita. Sono
terrorizzato dalla morte. I casi dell’emarginazione, i casi estremi,
sono il luogo in cui ci si può avvicinare più autenticamente al
significato di essere nel mondo».
Un modo di stare nel labirinto.
«Esattamente questo, provare a dare un senso al nostro disorientamento».