Il Sole Domenica 18.9.16
Credere di avere ragione
Una
conversazione da treno su stregoneria, scienza, relativismo. Un po’ di
logica per mettere ordine nel modo confuso con cui conduciamo le nostre
discussioni
di Armando Massarenti
«Le opinioni
vere, per tutto il tempo in cui stanno ferme e salde, sono un bel
possesso e producono ogni bene, ma non vogliono star ferme per molto
tempo e fuggono dall’animo umano. Per questo non valgono molto, finché
qualcuno non riesce a legarle con un ragionamento causale». Parola di
Socrate, che spiega in questi termini all’allievo Menone, protagonista
del dialogo platonico che porta il suo nome, la natura della conoscenza e
il sottile crinale che distingue un sapere vero e giustificato da una
semplice “credenza”. Come evitare che opinioni «ferme e salde» si
confondano in mezzo alle tante chiacchiere da bar (o da web) che
inquinano sempre più i nostri scambi comunicativi quotidiani, per non
dire delle nostre stesse menti? Come distinguere una buona
argomentazione da una cattiva? E chi certifica fatti e metodi in grado
di permetterci di distinguere le conoscenze attendibili da quelle
propagate da illustri ciarlatani? Qual è il modo più efficace per legare
conoscenza e buona argomentazione? «Vero» e «falso» sono concetti utili
o dobbiamo dar retta a chi, da Nietzsche a Rorty, passando per Foucault
o Feyerabend, ci invita a diffidarne e a pensare alla Verità come a una
manifestazione del Potere? È necessario essere relativisti, e magari
postmoderni, per avere una mentalità aperta e tollerante, o non è
proprio il relativismo a metterci in difficoltà quando vogliamo
giustificare i fatti e i valori che ci paiono più oggettivi e degni di
considerazione? Il relativista che nega che si possa fare appello a
qualunque verità stabile non è forse proprio colui che, in assenza di
giustificazioni, dovrà ricorrere più facilmente all’uso dell’autorità e
della forza? Verità e certezza vanno necessariamente di pari passo? O
non è forse vero che dire «no» è ben diverso dal dire «non lo so»? Il
fatto che il progresso scientifico e morale ci spingano a modificare
continuamente alcune nostre credenze ci riporta a sua volta nelle sabbie
mobili del relativismo? Se riteniamo che le conoscenze più salde siano
quelle verificate dalla scienza, sul piano della morale possiamo
ancorare i nostri valori a qualcosa di altrettanto saldo?
Una
risposta a queste domande, solo apparentemente astratte visto che
incidono non poco sul modo in cui ci rapportiamo agli altri e sulle
decisioni che prendiamo alla luce di ragionamenti e discussioni, ce la
dà un altro dialogo filosofico, brillante e piacevole per ogni genere di
lettore tanto da far venire in mente quello platonico. O meglio, un
“tetralogo”: lo scenario vivacissimo messo in scena dal filosofo di
Oxford Timothy Williamson nel suo ultimo libro Tetralogue: I’m Right,
You’re Wrong ora proposto in Italia dal Mulino, a cura di Diego Marconi.
Sarah,
Bob, Zac e Roxana viaggiano come passeggeri su un treno condividendo la
stessa carrozza. Tra Bob e Sarah, che già si conoscono in quanto vicini
di casa, nasce una conversazione che li trova subito fermamente
schierati su fronti opposti: l’«io ho ragione e tu hai torto», insomma,
che dà il titolo all’edizione italiana. Bob, superstizioso al massimo e
pieno di resistenze verso le spiegazioni offerte dalla scienza, cerca
infatti di convincere la razionalissima Sarah, portavoce di fatto della
mentalità scientifica, di essersi ferito a una gamba a causa del
malocchio lanciato da un’arcigna signora. Bob non ha dubbi, si tratta di
una strega. Zac s’inserisce nel discorso per conciliare, con un tocco
di relativismo all’acqua di rose («ognuno ha ragione dal proprio punto
di vista»), le due posizioni così lontane portate avanti da Sarah e da
Bob, mentre Roxana, l’ultima passeggera a salire sul treno, la più
vicina alle idee dell’autore, prende la parola lievemente infastidita
dal disordine che caratterizza l’intera discussione, cercando, qua e là,
di fare un po’ di chiarezza.
Questa dinamica, a metà tra una
classica situazione da treno (che tutti possiamo facilmente rievocare,
con ironia o fastidio a seconda della qualità dei nostri interlocutori,
avendola probabilmente vissuta chissà quante volte) e un’insolita
variante filosofica del quiz della Susi proposto dalla «Settimana
enigmistica», nelle mani di Williamson diventa un vero e proprio
esercizio filosofico volto ad affinare le capacità logiche e
argomentative dei protagonisti - e, insieme, di tutti noi - su temi come
scienza e magia, relativismo e fallibilismo, azioni buone e cattive,
verità e credenza, gusto e disgusto.
Ma la cosa più interessante
non sono tanto le singole posizioni portate avanti dai quattro compagni
di scompartimento, ma il modo in cui le argomentazioni si snodano, si
affinano, si incagliano. Come scrive Diego Marconi nella sua
Presentazione, «quasi in nessun caso la posizione che Williamson lascia
prevalere è l’unica soluzione possibile del problema che è stato posto.
Tuttavia, in tutti i casi la posizione che viene fatta prevalere è una
posizione competente e informata». Il che significa che «ha dei buoni
argomenti a suo favore», partendo da una conoscenza (auspicabilmente)
completa delle discussioni su quel determinato argomento. Questo è il
messaggio più importante: a mano a mano che si procede nel dialogo, le
opinioni di tutti i personaggi vengono sostenute, rafforzate, smontate e
rivitalizzate in vario modo. A dimostrazione del fatto che, in fondo,
non è detto che posizioni argomentate male non possano essere riprese in
un secondo momento, a patto che vengano argomentate meglio grazie alla
straordinaria palestra offerta dalla logica e da quell’importante
strumento che tutti, filosofi e no, abbiamo a disposizione, chiamato
«pensiero critico».
È grazie alla logica, intesa in questo senso
(e non come logica matematica), che Roxana-Williamson riesce a spingere
gli altri passeggeri (tutti tranne uno) verso posizioni più coerenti e
filosoficamente articolate, eliminando almeno parzialmente il disordine
tipico delle discussioni da treno. La più propensa a cambiare idea è
Sarah, che è in grado di attribuire alla scienza il giusto ruolo di
fonte massimamente autorevole, ma che difende assai male il suo
fallibilismo, al punto da renderlo vulnerabile persino di fronte alle
prese di posizione di Bob, il più rozzo della compagnia, che vede
streghe ovunque e che testimonia, a riprova dell’esistenza del
malocchio, la verità della propria esperienza contro quella, che appare
più astratta e più teorica, che fa appello alle migliori evidenze
scientifiche disponibili.
Roxana la redarguisce ricordando la
definizione di verità che fu già di Aristotele, formalizzata da Alfred
Tarski nel ’900. «Sarah ha detto che la stregoneria non funziona, e poi
ha negato di doverne concludere che è vero che la stregoneria non
funziona. Aveva paura di usare la parola “vero”; ma, come osserva
Aristotele, dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è
vero. Dunque Sarah si è sbagliata. Chiunque dica che la stregoneria non
funziona deve concluderne che è vero che la stregoneria non funziona». E
Sarah si correggerà dicendo che le parole «vero» e «falso» servono a
«esprimere più brevemente la preferenza per il dire le cose come stanno,
formulandola come preferenza per la verità». Preferenza da cui resterà
immune fino alla fine il postmoderno Zac. «Nel Medioevo - dice a un
certo punto per esprimere il suo consenso con il fallibilismo di Sarah -
la gente sapeva che il Sole gira intorno alla Terra, ora sappiamo
diversamente. Sappiamo che esistono gli elettroni, ma forse da qui a
mille anni la gente saprà diversamente da noi». E Roxana: «Ecco un altro
errore elementare classico. Nel Medioevo non sapevano che il Sole gira
intorno alla Terra, pensavano di saperlo. Si sa qualcosa solo se quella
cosa è così. Il Sole non gira e non ha mai girato intorno alla Terra».
Credere è molto diverso da sapere. Così come avere ragione è ben diverso
dal credere di avere ragione. Al termine del viaggio Zac affermerà,
congedandosi nel suo modo fintamente affabile e aperto, che a quel punto
bisognerebbe “decostruire” tutto ciò che si è detto. «Cosa avrà voluto
dire?», si chiede Bob. E Roxana: «Voleva dire che gli sarebbe piaciuto
molto avere la rivincita».
Timothy Williamson, Io ho ragione e tu
hai torto. Un dialogo filosofico , a cura di Diego Marconi, il Mulino,
Bologna, pagg. 216, € 16