Repubblica Cult 11.9.16
I tabù del mondo
L’enigma Ulisse eroe narcisista che scelse l’Altro
Il
personaggio creato da Omero è, ancora più di Edipo, simbolo eterno
dell’oltrepassamento del limite, come racconta Dante nell’Inferno. Ma
poi il Novecento (vedi Heidegger e Canetti) ha riletto in tutt’altra
chiave le sue avventure. Enfatizzandone i lati decisamente non
egoistici: dal pianto per Troia al ritorno in famiglia
Queste nuove interpretazioni non cancellano aspetti come il desiderio infinito
o la curiosità insaziabile: piuttosto sottolineano la divisione tragica dell’uomo
di Massimo Recalcati
Ulisse
è l’eroe della mitologia che più di tutti ha forse incarnato la
tendenza umana all’oltrepassamento di ogni tabù. Al contrario di Edipo,
il figlio, che di fronte all’eccesso di verità (non è re ma parricida,
non è marito ma figlio della regina, non è padre ma fratello dei suoi
figli) sprofonda nella colpa, Ulisse incarna la spinta positiva della
conoscenza che sa trasformare ogni ostacolo in uno stimolo a proseguire
la sua ricerca. Non ci siamo forse riconosciuti tutti in questa spinta,
si chiede Roberto Benigni commentando con il suo solito estro lo
straordinario canto XXVI della
Commedia di Dante che ha proprio in
Ulisse il suo maggiore protagonista? Non siamo noi tutti divisi tra la
brama di conoscere l’ignoto e l’attrazione nostalgica verso le nostre
radici, il suolo familiare, la nostra identità, Itaca?
L’interpretazione
dantesca del desiderio di Ulisse sembra però sbilanciare a senso unico
questa divisione: non il padre Laerte, non il figlio Telemaco, non la
moglie Penelope e nemmeno la propria terra, sono in grado di quietare
l’irrequieta brama di conoscenza di Ulisse. Il suo “folle volo” coincide
dunque con la sua massima colpa ( ma non fu la stessa di Edipo?): la
conoscenza non rispetta il suo limite umano, non riconosce la sua
insufficienza. Secondo Dante è questo il nucleo del dramma di Ulisse:
l’hybris del vincitore di Troia è, infatti, per il sommo poeta
tragicamente colpevole. «Misi me nell’alto mare aperto », dichiara
l’Ulisse dantesco a sottolineare l’indipendenza sovrana della sua
volontà. Il nostalgico ritorno verso Itaca è allora solo un pretesto per
soddisfare la sua curiosità irrefrenabile, la sua fame di esperienza?
Secondo Dante il suo viaggio è destinato alla morte perché non sa
cogliere il senso del limite che è innanzitutto il senso dei propri
limiti. Ulisse come Edipo trascura l’indicazione socratica: «Conosci te
stesso!». L’uno cerca il colpevole fuori da se stesso, l’altro rincorre
la soddisfazione per mari sconosciuti senza alcuna capacità di
raccogliersi presso di sé. La vera colpa di Ulisse, sempre secondo
Dante, non è lo stratagemma fraudolento del cavallo di Troia, ma la
superbia di voler accedere all’inaccessibile, di sfidare con la propria
intelligenza il mistero della vita e della morte, di non saper mai
realizzare il proprio desiderio fatalmente destinato all’insoddisfazione
perpetua. Per questa ragione Dante, alla fine del Canto XXVI, immagina
che la morte di Ulisse accada proprio nel momento in cui egli oltrepassa
il tabù delle colonne d’Ercole inoltrandosi in un viaggio impossibile,
destinato al naufragio («infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso »).
Nella
raffigurazione dantesca Ulisse è alle prese con un problema
narcisistico che non gli consentirebbe di fare mai a meno del proprio
Io. In totale contrasto con questo ritratto Elias Canetti in Masse e
potere indica il fascino di Ulisse in tutt’altra dimensione. Al centro
del suo brevissimo ritratto è l’immagine della diminuzione. Ulisse non è
vittima della superbia del proprio Io, non è sedotto dalla potenza del
proprio intelletto, ma è colui che sa salvarsi perché rinuncia al
proprio prestigio, finanche al proprio nome, alla propria individualità,
come accade nell’avventura con il Ciclope. È solo facendosi Nessuno che
l’eroe riesce a scongiurare la vendetta dei Ciclopi invocata dall’ira
di Polifemo accecato. Su questa stessa linea troviamo anche una
straordinaria lettura di Heidegger in un breve scritto titolato
Aletheia, contenuto in Saggi e discorsi. La scena è quella di Ulisse che
assiste al racconto della guerra di Troia del cantore Demodoco nel
palazzo dei re dei Feaci. A ogni passo della narrazione che gli rammenta
l’atroce risultato della sua astuzia, colpito dall’emozione, egli
nasconde il proprio capo per piangere in segreto. Quanto è diversa
questa immagine di Ulisse da quella dantesca del “folle volo”? Ulisse
non incarna qui la spinta indomita alla conoscenza del mondo, quanto il
valore di ciò che resta nascosto, che non appare. L’esatto contrario
dell’orgogliosa affermazione narcisistica di sé che Dante gli imputa.
Nel mezzo di una festa, Ulisse, l’esiliato, il senza patria, il
naufrago, si ritira in solitudine nel pianto e nella vergogna. Il sapere
non è qui potere, ma, se vuole avere un qualche rapporto con la verità,
deve saper arretrare. Non è questa un’altra versione di Ulisse che
entra in attrito con quella più nota che lo ha consacrato come eroe
tragico e superbo della conoscenza? Non è questo gesto di ritegno in
contrasto con l’orgoglio di colui che oltrepassa ogni divieto? Ecco
tutto il valore del passo indietro, del rinunciare al nome proprio,
della diminuzione sulla quale insiste anche Canetti.
Non è forse
per questa capacità di sottrarsi alla presenza che Ulisse può respingere
l’offerta di Calipso che in cambio del suo amore è disposta a
promettergli la vita eterna? Cosa rende possibile a Ulisse, il superbo,
scegliere di ritornare da Penelope, da suo figlio Telemaco e alla sua
terra? In questa scelta Ulisse — come accadde alla corte dei Feaci — si
rivela un soggetto capace di riconoscere il profondo debito che lo lega
all’Altro. Non cancella Penelope, non dimentica Telemaco, non scorda
Laerte. Non la vita eterna, l’oltrepassamento della morte, ma la vita
dell’amore che vuole restare fedele alla sua promessa è ciò che più
conta. Questo altro Ulisse non cancella ovviamente l’Ulisse del
desiderio infinito e della curiosità insaziabile che Dante ha
supremamente scolpito, ma ne esalta piuttosto, con ancora più forza, la
divisione tragica che lo attraversa.