Repubblica Cult 11.9.16
Mario Alinei
“Ho inseguito le origini del linguaggio ma non ho paura dei fenomeni pop”
“Tutti
parlano del sorriso della Gioconda, che cosa rappresenta e perché ci
lascia interdetti Quando morì mia madre rimasi sorpreso di vedere quel
sorriso sulle sue labbra”
“Ammiro Chomsky come intellettuale, ma
non per le teorie scientifiche. Anche se devo riconoscergli una certa
originalità: è vero che la biologia vi ha un ruolo fondamentale».
colloquio con Antonio Gnoli
Che
cosa si agita nella mente policroma di Mario Alinei? Mi piacerebbe che
il sipario, di questo singolarissimo studioso che è andato alle origini
delle lingue europee, si aprisse mostrandoci le sue meraviglie. Alinei
ha compiuto 90 anni qualche settimana fa. Festeggiandoli con alcuni
allievi, la famiglia e il personale che lo aiuta nella vasta casa
dell’Impruneta dove vive da qualche decennio. Se fosse stato un
navigatore del mare lo avremmo visto impegnato in imprese per lo più
solitarie. Ha insegnato per trent’anni all’università di Utrecht.
Fregandosene dell’accademia italiana. Una moglie americana, conosciuta a
Roma, e specializzata in anglistica. Una laurea sul poeta Montale e una
passione per l’indoeuropeo su cui ha sostenuto una tesi controcorrente.
Alinei è anche culturalmente uno stravagante, in questo momento, mi
dice, si occupa dell’origine dei cognomi. Ecco un uomo, penso, che ogni
volta che affronta un argomento va alle sue radici: «È un problema che
ha a che vedere con la verità. Mi ha ossessionato fin da giovane, fin da
quando appena sedicenne andai a trovare Ernesto Buonaiuti».
Andò perché?
«Avevo
smesso di credere. Ero imbevuto di precetti cattolici poi, come uno
scarto improvviso, balenò l’idea che non c’era nessuna assistenza
divina, nessuna protezione che non nascesse dalla fatica umana e dal
rischio. Buonaiuti era stato sacerdote e fu scomunicato per le sue idee
eterodosse. Viveva a Roma quando andai a trovarlo».
Come fu l’incontro?
«L’Italia
era in guerra. Roma, in quel tratto alla fine di via Nomentana,
sembrava campagna. Ricordo che come prima cosa mi portò fuori di casa e
poi disse: ascolta. Percepii il canto di un merlo tra i rami di un
albero. Se lui può ancora cantare, commentò, allora c’è qualche
speranza.
Buonaiuti mi presentò due sue allievi: Ambrogio Donini,
che sarebbe diventato il grande storico del cristianesimo e Iside
Mercuri, una germanista di talento ma sconosciuta. Fu Iside che, oltre a
farmi conoscere mia moglie, consigliò a Donini di suggerire il mio nome
per un incarico come lettore di italiano all’università di Utrecht, in
Olanda. La mia carriera prese così la strada della linguistica».
Che paese trovò?
«Civile
e aperto alle innovazioni. L’università si dimostrò interessata alle
mie iniziative. Fui il primo linguista a utilizzare la tecnologia
moderna, come l’impiego delle macchine a schede perforate dell’Ibm.
Adottai il campo della linguistica storica e comparata, indagando il
problema delle origini delle lingue europee».
Cosa si deve intendere per “origine”?
«Il
termine non va impiegato in chiave filosofica o, peggio ancora,
metafisica. L’origine presuppone una datazione che a seconda dello stato
di avanzamento degli studi è flessibile. In virtù delle mie scoperte ho
potuto retrodatare di parecchio la nascita delle lingue europee».
Quanto di parecchio?
«Diciamo
che ho rotto il rigido confine tra preistoria e storia. Ai miei occhi
la cronologia tradizionale era troppo breve e dunque insoddisfacente per
il mio lavoro sulla linguistica storica».
Parlando di origine storica delle lingue, il riferimento va all’indoeuropeo.
«Esattamente».
Diversi
e autorevoli studiosi hanno sostenuto che l’indoeuropeo sia la
risultante di invasioni, spesso brutali, provenienti da Est.
«Si
tratta della tesi “invasionista”, per cui le nostre lingue si sono
formate grazie alle ondate nomadi provenienti dall’Asia. Le confesso che
non mi ha mai convinto ».
Ammetterà che è una tesi autorevole.
«Autorevole?».
Tra coloro che l’hanno sostenuta c’è anche la grande studiosa di preistoria europea, la lettone Marija Gimbutas.
«La Gimbutas ha rappresentato la versione invasionista nella sua forma più radicale».
In
pratica ha sostenuto che tra il IV e il III millennio i Kurgan, un
popolo di pastori nomadi provenienti dagli Urali, hanno colonizzato il
continente europeo, decidendone il destino, anche culturale.
«Quale
destino? Secondo questa tesi, l’invasione avvenne in modo violento,
provocando un genocidio delle popolazioni che c’erano prima. In realtà
gli indoeuropei erano già stabilmente inseriti. Tra l’altro “Kurgan” è
una parola di origine turca e non indoeuropea e significa “tumulo”. Alla
tesi invasionista della rottura preferisco la teoria della continuità».
Che cosa non va nella teoria della rottura?
«Anzitutto
c’è l’assoluta assenza di prove archeologiche di invasioni di massa,
distruzioni, genocidi. Se ci fosse stata una discontinuità, tale da
trasformare il panorama linguistico dell’Europa, l’archeologia avrebbe
dovuto registrarne le innumerevoli tracce».
E invece?
«Niente.
L’archeologia, al contrario, mostra una continuità ininterrotta. Qua e
là si verificano, è vero, delle incrinature, ma sono crepe superficiali
che non giustificano il cambiamento radicale di civiltà. E poi c’è un
altro motivo».
Quale?
«Si tratta della prova che viene dalla
genetica. Luigi Luca Cavalli-Sforza e la sua equipe hanno dimostrato
che la classificazione dei gruppi genetici nel mondo corrisponde in modo
assolutamente identico alla classificazione dei gruppi linguistici. Le
due prove eliminano qualunque possibilità di una visione basata sulla
discontinuità ».
Quindi alla domanda chi c’era in Europa lei cosa risponderebbe?
«C’erano
gli indoeuropei, molto prima dei Kurgan che sono un fenomeno che risale
a quattromila anni fa. Ho studiato le loro iscrizioni e si lasciano
datare all’incirca al periodo dell’invasione degli etruschi».
Ma chi era l’uomo europeo?
«Era l’Homo loquens perfettamente sviluppato sia intellettualmente che culturalmente».
Però “indoeuropeo” compone due zone anche geograficamente distinte.
«Vero.
Ma il punto è da dove arrivano. La teoria della continuità sostiene che
la patria originaria degli indoeuropei è l’Africa, vale a dire la
stessa di tutte le popolazioni moderne. Insomma il quadro linguistico
del Mediterraneo si sarebbe già formato alla fine del Paleolitico. Già
prima del X millennio l’Europa mostra un alto grado di differenziazione
culturale, che deve necessariamente riflettere un alto grado di
differenziazione linguistica».
Perché dice Mediterraneo?
«Sappiamo
che l’ultima glaciazione toccò il suo apice all’incirca venticinquemila
anni fa. E le sole zone abitabili dell’Europa erano le regioni
meridionali. Qui vagava qualche decina di migliaia di sapiens sapiens,
gli ominidi rimasti superstiti sulla terra. Non doveva la loro essere
una vita facile».
Anche il paesaggio era diverso?
«Le isole
britanniche erano coperte dal ghiaccio e attaccate al continente. Africa
ed Europa erano unite non solo a Gibilterra ma anche nel punto dove
attualmente c’è la Sicilia. Poi, all’incirca tredicimila anni fa, la
temperatura cominciò ad alzarsi, i ghiacci si ritirarono e le acque
occuparono molta più superficie».
È un quadro di grandi sconvolgimenti.
«La terra e le acque non sono mai state componenti indolori
per la vita animale e umana».
Non trova una certa ironia preistorica?
«A che cosa allude?»
Al fatto che la prima grande migrazione verso l’Europa giunge dall’Africa.
«Forse
la spinta di disperazione che alimentava il nomadismo dell’Homo erectus
è la medesima che anima gli odierni migranti. C’è un’ironia. Ma è
atroce».
Possiamo immaginare il passaggio dalla preistoria alla storia come un salto, una discontinuità o che altro?
«C’è
qualcosa di impalpabile nel passaggio che finisce con l’essere un
confine ambiguo. Quando parliamo di preistoria dobbiamo capire che essa
abbraccia la sterminata vastità dell’epoca in cui l’uomo ha parlato
senza poter registrare e tramandare ai posteri quanto diceva ».
Non ci sono testimonianze.
«Per
un periodo infinitamente lungo è così. Poi l’archeologia ci ha aiutati a
comprendere e a periodizzare l’età detta dei metalli».
Che cosa determina il passaggio dalla preistoria alla storia?
«Sostanzialmente
due eventi: l’introduzione della scrittura, ma siamo già in epoca
recente e la fine delle società egualitarie e l’inizio di quelle
stratificate. Quest’ultimo è il vero spartiacque».
Il confine storico?
«Più
che storico è un confine tecnologico. Insomma quello che accade è che
una élite si afferma e si impadronisce del surplus prodotto. Ne regola a
proprio beneficio la distribuzione e da quel momento ha bisogno dello
strumento legale e formale dell’alfabetizzazione per consacrare e
legittimare il proprio potere».
È una vicenda che le popolazioni
indoeuropee mettono efficacemente a punto. Chi ha lavorato molto
approfonditamente su questo è Georges Dumézil. Lo ha conosciuto?
«Non
ho mai avuto occasione di incontrarlo personalmente. Ma ho letto a
fondo i suoi lavori sulla tripartizione universale e l’ho criticata».
La tripartizione si intende delle società che al loro interno hanno tre componenti: sacerdoti, guerrieri e produttori.
«Sì,
purtroppo Dumézil vedeva il suo schema tripartito ovunque. Ma è uno
schema artificiale e troppo generale. L’universo è libero dalle gabbie
concettuali. Dumézil si era innamorato del numero tre, considerato il
numero perfetto. Lo si trova dove lo si cerca! E poi, diciamo la verità,
la sua predilezione per la casta guerriera è un’assurdità. Un
espediente ideologico che poteva risultare utile ai nazisti. Non ci sono
prove archeologiche di guerrieri prima di una certa età. Anche se il
conflitto è antico, la definizione di guerriero è recente».
Accennava a un periodo trascorso a Roma.
«È
una città che ho sempre amato, malgrado i suoi difetti. Sono nato a
Torino. Ma vi rimasi pochi mesi. Mio padre, direttore della filiale
torinese di una multinazionale, fu promosso direttore a Roma e quindi a
Roma sono cresciuto e ho fatto tutti i miei studi e vi sono rimasto fino
alla mia partenza per l’Olanda nel 1959».
Su cosa e con chi si è laureato?
«Da
giovane mi occupai intensamente di poesia, scrivevo come critico per
una rivista che si chiamava La strada, si ispirava al neorealismo
cinematografico del dopoguerra e aveva come obiettivo polemico
l’ermetismo. Preparai una bozza di tesi laurea con Sapegno, molto
critica dell’ermetismo. A un membro della commissione non piacque perciò
dovetti cambiare tutto».
Facendo cosa alla fine?
«Scrissi
la tesi sull’unico poeta vivente che mi piaceva: Montale e mi laureai
con Francesco Biondillo. Ma la mia formazione intellettuale e morale, i
miei maestri sono state due persone che ho già menzionato: Ambrogio
Donini e Iside Mercuri, alla quale debbo il culto della generosità e
dell’altruismo».
La sua formazione di linguista l’ha mai portata a misurarsi con le teorie di Chomsky?
«Ammiro
Chomsky come intellettuale. In quanto linguista è molto distante dai
miei interessi, anche se gli riconosco una notevole originalità.
Dopotutto, le origini del linguaggio sono un problema enorme e la
biologia vi ha un ruolo fondamentale».
Quindi la linguistica da sola non basta a spiegare il linguaggio.
«No
e infatti ho sempre cercato di dare ai miei studi uno spessore
interdisciplinare. Non credo che una singola scienza sia in grado di
fornire una risposta soddisfacente a questioni profonde che riguardano
la mente e l’anima umane e la società nel suo complesso».
Nelle diverse escursioni anche un po’ stravaganti ho
notato che si è occupato della Gioconda di Leonardo.
Non è un argomento troppo visto, troppo pop?
«Non
ho nulla contro il pop se è in grado di dare spiegazioni chiare e
convincenti. Non semplici suggestioni. Quanto alla Gioconda fu uno
scritto occasionale. Tutti, appunto, parlano del suo sorriso: che cosa
rappresenta e perché ci ipnotizza o ci lascia interdetti. Quando morì
mia madre rimasi sorpreso di vedere quel sorriso sulle sue labbra. E mi
venne spontaneo scrivere un libriccino sul sorriso e la morte».
Ricavandone cosa?
«Penso
che quando ammiriamo un’opera d’arte non sia sufficiente viverne
l’esperienza del bello. Essa è un percorso spesso labirintico,
problematico, contraddittorio che mette in crisi la nostra capacità di
classificare il reale. Nel caso della Gioconda essa ci comunica la
morte, ma lo fa inconsciamente e insidiosamente sotto le false spoglie
del sorriso, della seduzione e della bellezza».
Lei pensa mai alla morte?
«È
un quesito che mi imbarazza. Comunque ci penso spesso e tutte le volte
seguo il consiglio di uno psicologo che ho consultato per questo
problema».
Che cosa le ha consigliato?
«Mi ha detto non
pensarci, pensa alla vita. Lo so può apparire banale. A me colpisce la
semplicità della frase. Perciò, quando giunge imperioso e tremendo un
pensiero di morte, penso alla vita. Non credo all’esistenza oltre la
vita. Non sogno la vita eterna. Siamo qui, con i nostri pregi e difetti a
combattere e a interpretare le cose del mondo».
Cosa pensa dell’odierna Europa?
«Non
ho alcun fiuto politico. L’Europa è per me una realtà storica, più
esattamente quella che ho studiato in profondità. Sulla lunghezza breve i
problemi da affrontare sono tanti. Su quella lunga posso ancora sperare
che la civiltà abbia la meglio sulla barbarie».