domenica 11 settembre 2016

Corriere La Lettura 11.9.16
Il coraggio della fuga (con molta discrezione)
Quarant’anni fa Henri Laborit scriveva un testo ancora fondamentale per comprendere forza e meccanismi anche morali dell’abbandono: di poveri, migranti, sfruttati. Gli esempi di Lesbo, Lampedusa e Calais
di Pierre Zaoui

La fuga è stata a lungo considerata caratteristica dei vigliacchi, dei deboli e dei pavidi. In un universo globalizzato e capitalista come quello di oggi — dove le antiche lealtà feudali hanno quasi perso ogni senso, dove non si crede più al mito dell’eroe virile che resiste costi quel che costi e dove si moltiplicano rifugiati politici ed economici spinti da condizioni di vita inumane a fuggire dalla loro patria — tale condanna è divenuta grottesca e inascoltabile. Nessun liberale di destra può sinceramente approvarla sapendo bene che l’efficacia della concorrenza capitalista si basa sulla capacità dei suoi soggetti di «disertare» (strategia dell’ exit nel linguaggio di Albert O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty, Responses to Decline in Firms, Organizations, and States , Paperback, 1970), che si tratti della rinuncia a un bene difettoso prodotto dal mercato, dell’abbandono di un congiunto con cui non si riesce a convivere sul piano morale, o del fatto di «votare con i piedi» (di emigrare) sul piano politico. E nessun individuo di sinistra serio può sottoscrivere tale condanna, sapendo dai tempi di Galileo quanto «infelici siano i popoli che hanno bisogno di eroi», secondo le parole di Brecht; e sapendo ancor più a seguito delle sinistre esperienze fasciste degli anni Trenta, che «i rifugiati sono l’avanguardia dei popoli», secondo la formula di Hannah Arendt.
Per spingere l’argomento fino al suo limite, chi rimprovererebbe ai sopravvissuti dei recenti attentati del 13 novembre a Parigi, del 22 marzo a Bruxelles o del 14 luglio a Nizza, di essere riusciti a fuggire?
Solo Marine Le Pen continua a rimproverare ai rifugiati siriani di fuggire invece di rimanere nel loro Paese e di armarsi per difenderlo. Non possiamo prendere sul serio le sue dichiarazioni, talmente sono cariche di nauseabondi secondi fini, di un virilismo fuori tempo e del ridicolo egoismo di chi denuncia soltanto la fuga di colui che minaccia i proprio comodi. Ma possiamo preoccuparcene poiché sembrano aver eco sempre di più in tutta l’Europa.
Questa legittima inquietudine induce a ricordare come tutta la filosofia, da L’elogio della fuga di Henri Laborit (1976), si sia impegnata in una riabilitazione della fuga, e a giusto titolo. Fuggire, per continuare con Laborit, è innanzitutto rinunciare all’unica altra possibilità che rimane in una situazione pericolosa o angosciante: l’aggressività. Certo, è sempre meglio fuggire che uccidersi l’un l’altro. Inoltre, fuggire è il contrario della rinuncia alla lotta. Anzi, spesso è accontentarsi di rinviarla per non morire subito di fronte a un nemico troppo potente. Deleuze amava citare la lettera di George Jackson, uno dei leader delle Pantere Nere: «Fuggo, ma finché fuggo cerco un’arma». Da questo punto di vista, fuggire significa anche il contrario della semplice rinuncia o del semplice abbandono: fuggire è cercare qualcosa, rimanere aperti alla vita, non rinunciare completamente o, secondo Baudelaire, immergersi «in fondo all’ignoto per trovare del nuovo».
Di qui, la potenza eminentemente creatrice della fuga: tutti i più grandi pensatori e artisti furono fuggitivi, infedeli prima o poi a tutte le sottomissioni, a tutte le loro amicizie, a tutte le loro fedeltà per continuare, appunto, a creare, a rifiutare il conforto del restare a casa propria, fra i propri.
Simili elogi della fuga sono profondamente giusti, ma manca ancora qualcosa perché siano del tutto convincenti. Come il ricordare che la fuga è bella ed efficace solo quando sa essere discreta. Il termine discrezione racchiude almeno tre significati.
Prima di tutto, il senso comune di rifiuto di ogni manifestazione troppo rumorosa. Quando si fugge, bisogna saper fuggire a passi felpati. Così, a proposito di colui che fugge per motivi politici, possiamo esser certi che egli proseguirà la propria lotta finché resterà clandestino, come il nero fuggitivo delle antiche colonie che scompariva per sempre nella foresta. È probabile che, appena si manifesterà un po’ troppo in pubblico, avrà già smesso di resistere fuggendo, come i ricchi rifugiati cubani di Miami che non rappresentano l’immagine più sincera dell’«avanguardia dei popoli». Lo stesso vale, e in maniera ancora più palese, per chi fugge dal proprio compagno o dalla propria compagna: appena cerca di giustificarsi con un eccesso di argomenti sonori, non si percepisce più la bellezza vitale della sua fuga, ma solo un triste risentimento.
Poi, in un secondo senso più morale, discrezione significa modestia, pudore, desiderio di non parlare troppo di sé. Beati i fuggitivi, ma a condizione che non mettano troppo in mostra il valore della loro fuga. E questo è vero sia sul piano politico che morale. Si può preferire Ulisse ad Achille, considerarlo più saggio, più razionale, meno stupido, ma a condizione di ricordarsi che Achille rimarrà in eterno un eroe infinitamente più nobile e più glorioso di Ulisse, cosa che quest’ultimo sa bene, come testimoniato nel Canto XI dell’ Odissea : «Tu, Achille, il più illustre di tutti gli Achei», gli dice Ulisse.
La fuga discreta esige di non atteggiarsi a nuova figura dell’eroismo e di lasciare l’eroismo agli eroi. In questo senso, più che fuggire come nelle vesti di un protagonista glorioso in cerca di rivincita e di un ritorno definitivo, fuggire significa farlo davvero, per sempre, come effettivamente Ulisse che nemmeno resterà a Itaca accanto a Penelope, ma sarà costretto a proseguire la sua strada seguendo la profezia di Tiresia, nel già citato Canto XI. Ogni elogio della fuga è dunque senza ritorno: fuggire, è fuggire sempre, non tanto alla maniera di un figliolo eventualmente prodigo nel ritornare, quanto di un lavandino che perde acqua di continuo, ma poco a poco, goccia a goccia: un processo vitale, il contrario di un modello e il contrario di uno scopo (fuggire discretamente è non fuggire mai verso qualcosa).
Infine, discrezione deve essere intesa nel senso matematico di discontinuo, di scarto irriducibile fra ogni termine della serie che si pretende incarnare. In questo senso, una fuga discreta non è mai interamente discreta nel primo senso del termine, è piuttosto costituita da momenti di scomparsa e momenti di apparizione. Politicamente, è qui che ritroviamo il senso che Hirschman dà alle strategie dell' exit : queste hanno un valore politico se articolate con strategie di voice , di presa di parola: «Contesto pubblicamente le vostre decisioni e se voi non rispettate la mia contestazione, me ne andrò via».
Altrimenti, è difficile sfuggire all’unico modello dell’ homo oeconomicus egoista e razionale: me ne vado appena il restare cessa di convenirmi. Allora non esiste più alcun elogio possibile della fuga, solo la possibilità di una constatazione agrodolce: gli uomini fuggono. Questo è ancora più vero sul piano morale o affettivo: colui che è fuggito senza dare alcuna possibilità alla parola e alla ripresa non è fuggito davvero, ha solo lasciato perdere.
Se quindi oggi è più che legittimo ricordare le virtù di tutti gli elogi della fuga, a grande vantaggio dei rifugiati, dei nomadi, dei vagabondi, dei rari individui liberi, è altrettanto necessario ricordare come tali elogi traggano tutta la propria forza paziente e la propria grandezza sotterranea solo rimanendo discreti. Sotto molti aspetti, questa non è che la lezione quotidiana, modesta, discontinua (fatta di azioni silenziose e di attacchi di collera pubblici) che ci offrono in modo magnifico gli anonimi abitanti di Lesbo e di Chios in Grecia, di Lampedusa in Italia, di Calais in Francia, aiutando coloro che fuggono, aiutandoli semplicemente a passare, per andare dove vogliono, dove è loro possibile arrivare, forse per ripartire ancora.
(traduzione di Daniela Maggioni )