domenica 11 settembre 2016

Corriere La Lettura 11.9.16
Il desiderio di fuggire
Viviamo in una non-società viscosa ed esigente, siamo connessi ma senza relazioni con gli altri
Perciò il primo pensiero può essere: ora sparisco
Esiste la voglia di scomparire perché ci si sente inadeguati oppure rifiutati
di Adriano Favole

Il volume La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (Einaudi, 2002; prima edizione 1977), a cura di Clara Gallini, raccoglie note preparate dall’antropologo Ernesto de Martino (1908-1965) per una ricerca che non riuscì a terminare. Il libro dello scrittore francese Christian Bobin La Présence pure del 1999 è stato riproposto da Gallimard nel 2008. Adriano Favole ha affrontato la questione della «non società» in un articolo apparso su «la Lettura» #214 del 3 gennaio 2016

Il termine polinesiano tavaka significa «viaggio» e «fuga» al tempo stesso. È il desiderio di partire, di lasciare i tranquillizzanti ma ristretti confini dell’isola, di spingersi verso un orizzonte ignoto, anche a costo di rischiare la vita. A metà Ottocento, all’epoca in cui i missionari cristiani muovevano i primi passi nei paradisi inquieti dell’Oceania centrale, i tavaka erano frequenti. Soprattutto i giovani, a bordo di imbarcazioni precarie — poco più che tronchi scavati — si abbandonavano alle onde lunghe e impetuose del Pacifico, sperando di arrivare altrove . Quando una nave di balenieri, commercianti o raccoglitori di molluschi gettava l’àncora nei pressi, molti cercavano di salire a bordo e nascondersi nelle stive, pur di raggiungere un aldilà ignoto. Mi ha sempre colpito la testimonianza di un missionario che, ossessionato da queste partenze, scriveva nel 1861 a proposito degli abitanti di Wallis e Futuna (Polinesia occidentale): «Per quanto monsignor Bataillon (primo vescovo dell’area, ndr) si sia espresso in modo fortemente contrario a questo desiderio sfrenato di viaggiare, questa malattia pestilenziale è ben lontana dallo sparire».
Nel nostro immaginario antropologico, soprattutto in relazione alle società cosiddette tradizionali, prevale l’idea che gli esseri umani siano saldamente affezionati ai loro «costumi» e modi di vita. Emblematico, al proposito, un passo di Ernesto de Martino: «Ricordo un tramonto, percorrendo in auto qualche solitaria strada calabrese. Non eravamo sicuri della giustezza del nostro itinerario, e fu per noi un sollievo imbatterci in un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, ma le sue indicazioni erano così confuse che lo pregammo di salire in auto e di accompagnarci fino al bivio giusto. (…) Accolse con qualche difficoltà la nostra preghiera, come temesse un’insidia oscura, una trama ordita ai suoi danni. (…) Lungo il percorso la sua diffidenza aumentò, e si andò tramutando in vera e propria angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista famigliare del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo minuscolo spazio esistenziale» ( La fine del mondo , Einaudi).
Eppure, ai campanili dell’etnocentrismo fanno da contraltare, in ogni cultura, i desideri o le necessità della fuga, le brecce, la sensazione, in alcuni, di essere prigionieri di una viscosità sociale eccessiva. Quella sensazione può trasformarsi in desiderio sfrenato di fuggire altrove o di s/fuggire al proprio ruolo sociale, nascondendosi in un «io» che erige barriere e si isola dal «noi» che lo avvolge in una ragnatela percepita ormai come pericolosa e insopportabile.
Quante e quali forme di tavaka incontriamo nelle nostre esperienze quotidiane? Nel suo libro Fuggire da sé (Raffaello Cortina) David Le Breton affronta il tema della fuga collocandolo al cuore della contemporaneità. Il «fuggire» di Le Breton, tuttavia, non ha i tratti affascinanti dell’avventura, ma piuttosto la tragicità o la malinconia dell’abbandonare ruoli e mondi sociali ormai troppo impegnativi per nascondersi in un luogo riparato e «ombroso», lontano dai clamori e dalle potenti luci artificiali di una città globale che ci vuole sempre sul palco. Anche se non usa il termine, l’antropologo francese guarda alla contemporaneità come a una «non-società». Più che liquida, la non-società è viscosa: i suoi atomi sono avvinghiati in maglie strette, costretti all’efficienza, alla produttività e a ritmi frenetici. «In una società nella quale dominano flessibilità, urgenza, velocità, concorrenza, efficienza — scrive Le Breton — essere se stessi non è più cosa ovvia, poiché diventa necessario rigenerarsi di continuo, adeguarsi alle circostanze, assumere autonomia, mantenersi all’altezza». Un compito tanto più difficile in quanto viviamo in un’epoca che ha profondamente stravolto il legame sociale. «Il legame sociale è divenuto un dato ambientale più che un’esigenza morale. (…) L’individuo contemporaneo è connesso, non già in relazione con gli altri».
Accade così che coloro che non si riconoscono più in questo centro commerciale globalizzato, caratterizzato da una produttività esasperata o, all’opposto, da inattività forzata, coloro che non ce la fanno più a colorare di significato un mondo illuminato sì, ma spesso opaco, finiscono per tentare una via di fuga. Chiudendosi in una stanza o nei meandri della scrittura o della musica; immergendosi in un sonno prolungato e inarrestabile; sprofondando nella depressione e nel burnout sociale; frammentando il proprio «io» in personalità multiple; scivolando nell’infinito virtuale dei giochi e dei social media; cadendo nella trance anoressica o semplicemente cercando di scomparire senza lasciare traccia.
Il «peso dell’individuazione» e il conseguente desiderio di divenire anonimi e invisibili si può manifestare, temporaneamente, nella ricerca di un rifugio anti-web: una lunga camminata in una zona impervia e montagnosa per esempio. Oppure può assumere un carattere quasi definitivo, un rifiuto, più o meno consapevole, della socialità consueta o della socialità tout court . Le Breton lo chiama «biancore»: come un’uniforme distesa di neve fresca che non lascia intravvedere increspature, il biancore consiste nel prendere congedo da sé, dal sé che fino ad allora si era stati, in ragione dell’insopportabile fardello di essere se stessi. Rifacendoci ancora a de Martino, potremmo dire che il biancore è il capovolgimento della rivendicazione di «presenza». La crisi si manifesta piuttosto nella ricerca dello scomparire, del sottrarsi alla vista, del nascondersi, un «grido murato», un «fare il morto» senza per questo perseguire la morte come nel suicidio. L’adolescente che scivola nell’abisso del virtuale o cerca rifugio in una qualche «sostanza»; il personaggio famoso o l’anonimo marito e padre di famiglia che organizza la propria scomparsa, nascondendosi in un altrove misterioso, praticano una sorta di decrescita della personalità.
Se nella non-società competitiva il desiderio di fuggire assume aspetti peculiari, il fenomeno non è nuovo. I personaggi e l’autore stesso Robert Walser sono chiusi in una sorta di monastero interiore: rifiutano di essere se stessi preferendo mimetizzarsi sullo sfondo, come abili camaleonti sociali. L’impiegato Bartleby di Herman Melville usa una sorta di apatia stoica nei confronti dell’ambiente di lavoro ostile, assegnando al silenzio il ruolo di isolante sociale. E la scelta di Ferdinando Pessoa di moltiplicare il proprio «io» attraverso i personaggi dei suoi scritti può essere considerata, anch’essa, una scelta all’insegna del biancore.
Lo studio e la raccolta delle forme del fuggire possono dar vita a un’antropologia dell’assenza, dei rifugi, della ricerca di rade riparate dal clamore e dall’invasività del vivere contemporaneo, anche attraverso modalità in cui si fondono malattia organica e scelta deliberata, crisi fisiologica ed emarginazione sociale. Si fugge da un progressivo confinamento nei ristretti limiti della vecchiaia, dall’assegnazione di nuovi ruoli o non-ruoli a cui non si riesce e non si vuole più far fronte. Si entra così in una no man’s land in cui viene meno la capacità di narrare e tenere insieme la propria storia, ci si rifugia in un qui e ora congelato. Una «presenza pura» o «nuda» quella di molti anziani, in cui, per dirla con Christian Bobin, si sta «seduti per ore nel corridoio dell’istituto, aspettando la morte o l’ora del pasto» (La présence pure , Gallimard).