venerdì 9 settembre 2016

Repubblica 9.9.16
Burkini, oltre i divieti
di Ian Buruma

LA NOTIZIA che alcune donne musulmane abbiano scelto di presentarsi sul litorale francese indossando un indumento che copre la testa (ma non il volto) e gran pare del corpo ha suscitato grande clamore. Questo singolare capo, detto burkini, è stato inventato nel 2004 dalla australiano-libanese Aheda Zanetti nella speranza di dare anche alle musulmane più osservanti l’opportunità di fare il bagno o partecipare a degli sport in pubblico.
Nicolas Sarkozy, attualmente in lizza per la presidenza, ha definito il burkini una “provocazione” e un “indizio della rampante islamizzazione”. Il primo ministro francese Manuel Valls è apparso altrettanto contrariato: il seno nudo, ha detto, è emblema della libertà della Francia repubblicana. Dopo tutto, ha aggiunto, la Marianna, simbolo della Repubblica, non viene forse ritratta il più delle volte a seno scoperto?
I sindaci di alcuni comuni rivieraschi del sud della Francia hanno vietato l’uso del burkini. I giornali di tutto il mondo hanno pubblicato una foto grottesca, scattata su una spiaggia di Nizza, che mostra tre poliziotti francesi - uno dei quali porta un mitra a tracolla - intenti ad obbligare una donna a spogliarsi. Benché la massima corte francese abbia revocato il divieto, in diverse località balneari francesi questo continua ad essere applicato. La veemenza con cui Sarkozy si è scagliato contro il burkini è quasi certamente opportunistica, e rappresenta l’ennesimo tentativo di alimentare il fuoco del pregiudizio nei confronti di una minoranza impopolare - nella speranza di sottrarre qualche voto all’estrema destra del Fronte Nazionale di Marine Le Pen. Tuttavia, nel rispetto della secolare tradizione del fervore missionario europeo, il suo opportunismo è ammantato di toni moralistici: «Noi non imprigioniamo le donne dietro un tessuto ». In altre parole, Sarkozy vorrebbe farci credere che il divieto di indossare il burkini abbia come obiettivo quello di liberare le musulmane dalle arcaiche restrizioni imposte loro dagli autoritari uomini musulmani. Analogamente a quanto accadde in passato nell’India coloniale, dove i governatori britannici impedirono alle vedove indù di essere arse vive per seguire nella morte il marito defunto.
Dalla fine del secolo scorso la retorica anti-musulmana si nasconde sempre più spesso dietro il linguaggio dei diritti umani, come se la parità di diritti per le donne o gli omosessuali rientrasse in un’antica tradizione occidentale che occorre salvaguardare a tutti i costi dal fanatismo religioso che viene da fuori.
Stando alla versione che Manuel Valls ha della storia, la nudità pubblica è una tradizione prediletta dai francesi. Le donne, per essere completamente francesi, devono scoprire il seno.
In realtà l’Occidente ha sempre avuto nei confronti della nudità un atteggiamento piuttosto singolare. Nel XIX secolo, quando la Marianna divenne un simbolo della Repubblica francese, la nudità era accettabile solo nella sua forma idealizzata, come nei dipinti o nelle sculture delle divinità greche e di altre eroine mitologiche. Mentre ammirare il seno di una Venere nuda o della Marianna era considerato accettabile, era assolutamente inopportuno che una donna mostrasse anche solo parte della caviglia. Nel mondo occidentale di oggi è raro imbattersi in atteggiamenti simili, che possono davvero tradursi in una sorta di “prigionia”. In alcune zone abitate dagli immigrati, le donne musulmane si sentono obbligate a coprire il capo per paura che gli uomini musulmani le considerino alla stregua di prostitute e ritengano quindi di poterle molestare. Tuttavia, le cose non vanno sempre così: alcune musulmane scelgono di indossare l’hijab, o in rari casi il burkini. Occorre quindi domandarsi se spetti allo Stato decidere cosa i cittadini possono o non possono indossare.
Secondo la Francia repubblicana, mentre in privato chiunque può indossare ciò che preferisce, in pubblico occorre attenersi alle norme della tradizione secolare. Tale regola è stata imposta con particolare rigore più ai musulmani che ai membri delle altre religioni. Non ho mai visto una foto in cui i poliziotti obbligano delle ebree ortodosse a scoprirsi il capo. Certo, si potrebbe obiettare che gli ebrei ortodossi non compiono massacri in nome della religione, ma supporre che tutte le donne che indossano il burkini siano delle potenziali terroriste è inverosimile. Una donna sdraiata sulla spiaggia con un costume che le copre il corpo probabilmente è molto poco propensa a sparare o a compiere attentati.
Cosa dire a chi afferma che le donne musulmane hanno bisogno dell’aiuto dello Stato per emanciparsi dagli uomini che le obbligano a nascondere il corpo? Che limitare la libertà anche di chi decide autonomamente di vestirsi così sarebbe un prezzo troppo alto da pagare. Il modo migliore per aiutare le donne a sottrarsi all’autoritarismo familiare è incoraggiarle a vivere pubblicamente: nelle scuole, negli uffici e sulle spiagge. È meglio che le donne vadano a scuola indossando il velo piuttosto che rinuncino del tutto all’istruzione.
Nel caso di alcune funzioni pubbliche è perfettamente legittimo esigere che le persone mostrino il proprio volto. Alcuni impieghi impongono un abbigliamento specifico. Le aziende private possono chiedere ai propri dipendenti di attenersi a un certo stile, senza dover per questo ricorrere alla legislazione nazionale. Ma un’esagerata insistenza a imporre la conformità da parte dello Stato potrebbe produrre un effetto opposto: obbligando le persone a conformarsi a un’identità comune si rischia di incoraggiare un’ostinata, ribelle propensione alla diversità.
Non possiamo dire a Fatima o a Mohammed che sono francesi come gli altri e che devono comportarsi secondo le norme stabilite da Sarkozy o da Valls se poi non vengono trattati da pari da pari da chi ha un nome come Nicolas o Marianne.
Coprirsi il capo con un velo o indossare un costume da bagno integrale possono essere un modo provocatorio e innocuo con cui delle persone umiliate manifestano il proprio orgoglio. Se le privassimo anche di quell’orgoglio, la provocazione potrebbe rapidamente farsi meno innocua.
(Traduzione di Marzia Porta)