Repubblica 8.9.16
Se i grandi d’Europa alzano barriere
di Paolo Garimberti
A
DUE settimane dal vertice tra Renzi, Merkel e Hollande per rilanciare
lo spirito di Ventotene, che ispirò i padri fondatori dell’Europa, la
Gran Bretagna risponde con la costruzione di un muro di cemento armato a
Calais per bloccare l’afflusso di profughi. Non è soltanto
un’anticipazione della Brexit. È qualcosa di molto di più.
Nell’immaginario collettivo è una replica del Muro di Berlino. Ma tra
due alleati europei, stavolta. Non, come fu il muro voluto da Krusciov,
tra due ideologie contrapposte nei valori e nella vita quotidiana.
Perciò,
psicologicamente oltre che politicamente, il muro di Calais può
rappresentare l’inizio della fine di un sogno: quello di un’Europa
unita, senza barriere, che Altiero Spinelli aveva cullato a Ventotene e
che fu sancito da grandi europeisti con i Trattati di Roma. Il 25 marzo
dell’anno prossimo sarà il settantesimo anniversario di quella
cerimonia. E l’Italia, d’accordo con Malta, che avrà la presidenza di
turno della Ue, ha pianificato proprio a Roma una solenne celebrazione
che non vorrebbe essere solo cerimoniale, ma un’occasione per una
riflessione seria e profonda su che cosa è l’Europa oggi: analizzarne il
malessere, ma anche individuarne le potenzialità. Ma oggi l’annuncio di
Londra si abbatte come un macigno su quei buoni propositi. Perché la
Brexit è ancora qualcosa di irrealizzato, un processo lungo, complicato e
dai tempi indefiniti. Mentre il muro di due chilometri per quattro
metri d’altezza è qualcosa di concreto, dà un senso di separatezza
immediato. Non è il primo muro contro gli immigrati che viene costruito
in Europa. Quello di Horgos, voluto dal governo di estrema destra di
Viktor Orban al confine tra Ungheria e Serbia, è stato innalzato nel
2015. Ma il cemento e il filo spinato di Horgos sono figli della visione
euroscettica più ristretta e meschina verso gli immigrati del
cosiddetto “Quartetto di Visegrad”: ex Paesi comunisti, satelliti
dell’Urss (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), che hanno
vissuto per anni separati dall’Europa dalla cortina di ferro e che i
muri ce l’hanno, per così dire, nel Dna. Lo spirito dell’accoglienza è
loro sconosciuto, perché per tutto il lungo dopoguerra hanno coltivato
solo quello della sopravvivenza, individuale e nazionale.
Ma
quello di Calais è il primo muro che viene edificato tra due grandi
democrazie europee, che dovrebbero condividere gli stessi valori di
libertà e lo stesso spirito compassionevole verso coloro che cercano
aiuto dalle sofferenze della povertà e dalle atrocità delle guerre. Due
Paesi che fanno parte dell’Alleanza atlantica, sono membri permanenti
del Consiglio di sicurezza dell’Onu e, in attesa che la malattia
terminale della Brexit arrivi al suo esito, fanno pur sempre parte
dell’Unione europea. Ecco perché l’impatto è devastante come lo fu
quello di Berlino, definito proprio dall’Occidente “il muro della
vergogna”. Dunque la riflessione su che cosa resta oggi dell’Europa non è
più rinviabile: è di una drammatica urgenza e il settantesimo
compleanno dei Trattati di Roma rischia di essere troppo lontano, anche
se mancano solo sette mesi. Il segnale che i governanti davvero
europeisti devono mandare alle loro opinioni pubbliche sempre più
affaticate e deluse è che l’Europa non finisce con il muro di Calais.
Ma, anzi, da lì riparte.