Repubblica 8.9.16
Quello scontro sulla Mecca tra sauditi e iraniani
Teheran ora vuole contestare la stessa legittimità del regime di Riad
di Roberto Toscano
CHE
sauditi e iraniani siano nemici piuttosto che semplici avversari non è
certo una novità, e le ragioni della loro reciproca ostilità sono
molteplici, dalla rivalità geopolitica alla concorrenza sul mercato
petrolifero. La rivalità viene da lontano, radicata com’è in ambizioni
incompatibili di egemonia regionale. Iniziata ben prima del passaggio
dall’Iran imperiale alla Repubblica islamica, oggi si traduce in guerre
“per procura” in vari punti dello scacchiere medio-orientale,
estendendosi fino all’Afghanistan.
Proprio per questa complessità
si dovrebbe evitare di interpretare semplicisticamente i rapporti fra i
due paesi cedendo alla tentazione del fattore unico che tutto spiega, e
così come sarebbe errato ridurre tutto al petrolio, ugualmente ridurre
tutto a una guerra di religione sarebbe fuorviante.
Ma la
religione c’entra: come fonte di legittimazione delle proprie ambizioni e
nello stesso tempo come riferimento identitario. Finora il regime
iraniano aveva evitato di fare della rivalità con la monarchia saudita
una questione religiosa. Teheran — autentico stato-nazione e con una
popolazione ormai maggioritariamente ben lontana dall’integrismo
militante — preferisce perseguire interessi nazionali piuttosto che
farsi veicolo della fede sciita. Questo a differenza dei sauditi, per
cui il sunnismo radicale è profonda e unica identità e non solo
strumento per garantire stabilità interna e influenza internazionale.
Negli ultimi giorni sembra che questa asimmetria si stia quanto meno
attenuando, con un durissimo attacco iraniano alle modalità, e anzi alla
stessa legittimità, della gestione da parte dei sauditi del luogo più
santo dell’Islam, la Mecca. Mettere in dubbio il ruolo della monarchia
come guardiano della Mecca significa contestare la legittimità del
regime saudita, che non si fonda né su un passato imperiale né su una
realtà come nazione né su un consenso democratico, ed è quindi, in
questo senso, molto più teocratica dell’ibrido sistema iraniano.
L’innesco
di questa “guerra della Mecca” può essere fatto risalire alla tragedia
avvenuta un anno fa, quando oltre duemila pellegrini morirono come
conseguenza di una mostruosa calca. Tra questi c’erano oltre
quattrocento iraniani, e il governo di Teheran fin dall’inizio denunciò
quello che definì un comportamento delle autorità saudite non solo
inefficiente, ma colpevolmente indifferente alle esigenze di sicurezza
dei pellegrini e soprattutto di quelli iraniani. Un trattamento che
Teheran, rispondendo anche a una forte sensibilità dell’opinione
pubblica, definì indegno.
A distanza di un anno, alla vigilia
dell’inizio del nuovo Hajj, la principale ricorrenza che porta alla
Mecca milioni di fedeli, la polemica è stata riaccesa dallo stesso
leader supremo Khamenei che, parlando ai familiari delle vittime della
tragedia dello scorso anno, ha definito “maledetta” la famiglia reale
saudita affermando che non merita di gestire i luoghi sacri dell’Islam.
Un’affermazione che riprende quello che lo stesso Khamenei aveva detto
pochi giorni fa, quando aveva sostenuto che la Mecca dovrebbe essere
affidata a un organismo super partes. Va rilevato che su questo problema
è emersa una piena coincidenza di toni fra il leader supremo e il
presidente Rouhani, che ha fatto appello a tutto il mondo islamico
perché punisca i sauditi non solo per l’indegna gestione dei luoghi
santi, ma anche per “gli altri crimini“ commessi nella regione medio-
orientale («il governo saudita, commettendo crimini nella regione e
sostenendo il terrorismo, di fatto ha versato il sangue dei musulmani in
Iraq, Siria e Yemen»).
Un tono insolito per Rouhani, il cui
governo non aveva finora rinunciato a perseguire, anche se con
gradualità e discrezione, quella politica di riduzione del livello dello
scontro con i sauditi che tradizionalmente ha caratterizzato la linea
di politica estera sia dei riformisti che dei centristi, da Rafsanjani a
Khatami.
Evidentemente nemmeno il moderato Rouhani ritiene che vi
sia oggi la possibilità di evitare uno scontro che, se esteso alla
dimensione religiosa, diventa totale e difficilmente reversibile. O
forse, nel momento in cui il suo governo deve fare i conti con correnti
radicali che usano tutti i mezzi per indebolirlo (dalla sempre più
serrata critica per i mancati benefici dell’accordo nucleare all’arresto
da parte dei pasdaran di doppi cittadini irano-americani) ritiene che
allinearsi pienamente col leader supremo e i conservatori sulla
“questione Mecca” possa aiutarlo a ridurre le pressioni cui è
sottoposto. Infine, non va dimenticato che in Iran essere contro i
sauditi può solo essere popolare, tanto più in un momento in cui lo
scorso luglio questi hanno lasciato cadere ogni remora appoggiando
apertamente il movimento Mko (gli islamo-marxisti diventati
collaborazionisti di Saddam durante la guerra contro l’Iran), odiato in
Iran anche da chi odia la Repubblica islamica.
A livello
governativo l’immediata replica saudita a questa offensiva
politico-propagandistica degli iraniani è sembrata finora piuttosto
contenuta, con l’erede al trono Mohammed bin Nayef che si è limitato a
definire le accuse iraniane “improbabili” e “non obiettive”. Ma quali
siano i più autentici umori del regime lo rivelano le dichiarazioni del
Grande Mufti Abdul Aziz al Sheikh, il religioso saudita di rango più
elevato, che non si è limitato a confutare le accuse e le pretese
iraniane, ma ha fatto compiere un ulteriore passo all’escalation
definendo gli iraniani “non musulmani”, in quanto “figli dei Magi”, cioè
dei sacerdoti della religione zoroastriana, la religione della Persia
pre-islamica.
Sono parole che rivelano qualcosa di cui sono
convinti non solo il Gran Mufti e il regime saudita, ma i sunniti più
radicali: che gli sciiti non sono veri musulmani, ma eretici da
combattere ed eliminare. E’ un’esplicita manifestazione del credo
takfiri che caratterizza soprattutto il radicalismo wahabita — quel
radicalismo che i sauditi hanno esportato dal Nordafrica alle Filippine:
la convinzione che i devianti dall’ortodossia vadano esclusi
dall’appartenenza all’Islam, premessa della loro eliminazione.
Non
è la prima volta che la Mecca è teatro di scontri fra sauditi e
iraniani, come accadde nel 1987, quando la repressione della polizia di
disordini promossi da pellegrini iraniani produsse 400 morti. Ma oggi
non siamo più a livello di incidente, per quanto grave: oggi è la stessa
Mecca — luogo in cui i musulmani dovrebbero riunirsi senza distinzioni
di razza classe o orientamento dottrinale e politico — ad essere
apertamente diventata punto focale di discordia e di esplicita,
reciproca delegittimazione.