giovedì 8 settembre 2016

Repubblica 8.9.16
Il minimalismo di Merkel
di Andrea Seibel

È IL SOGNO di tutti i politici, e probabilmente anche di altre figure di prestigio e potere: essere ricordati per un’espressione o una battuta che entri, come si suol dire, negli annali della Storia. Si mettono in bocca ai personaggi storici frasi come “Il mio regno per un cavallo!” (Riccardo III, da Shakespeare) oppure: “Qui saldo sto, altro da questo non posso fare” (Martin Lutero a Worms nel 1521).
Indimenticate, per noi tedeschi del dopoguerra, le parole pronunciate da John F. Kennedy nel 1963: “Ich bin ein Berliner!”. L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt, scomparso nel novembre dello scorso anno, era solito alle battute che spesso risuonavano col fragore del tuono. Non a caso lo si ricorda tuttora come «Schmidt- Schnauze» (quella boccaccia di Schmidt), ma anche per il fatto che fino all’ultimo respiro aveva sempre fumato, anche nei luoghi in cui era proibito. Ma nessuno gliene ha mai fatto un colpa.
C’è stato poi Helmut Kohl: «I cani abbaiano, la carovana va avanti»(1982), oppure: «Decisivo è ciò che esce da dietro» (1984). In tempi più recenti si è registrata la frase pronunciata da Ronald Reagan davanti alla Porta di Brandeburgo: «Abbattetelo, questo muro!». O quella di Mikhail Gorbaciov in visita nella Rdt nell’autunno del 1989: «La vita punisce chi arriva in ritardo».
Esaltante per noi tedeschi fu il gesto di Willy Brandt, quando a Varsavia si mise in ginocchio, così come una sua frase fervida e visionaria: «Ora si congiunge ciò che è fatto per essere unito» (9 novembre 1989). Del grande Gerhard Schroeder si ricorderanno in eterno le parole urlate da giovane studente socialista e ribelle davanti alle inferriate della Cancelleria di Bonn: «Qui voglio entrare! ». O anche i versi, coniati durante una festa estiva per essere poi cantati in un rap: «Una birra porta qua, o sciopero sarà! » Ma in questi ultimi anni si è fatto silenzio in Germania. Cos’è successo? L’élite politica è rimasta senza parole? Sta di fatto che le frasi degne di essere citate si contano sulle dita. Sarà forse perché Angela Merkel, cancelliera di lungo corso, ora in lizza per la sua quarta legislatura, è maestra nell’eloquio allusivo e minimalista. L’esatto contrario della grande oratoria.
Di fatto non le piace tenere discorsi, e quando non può farne a meno la sua voce è una monotona cantilena. Nulla in lei dà il senso del potere. La sua decenza piccolo borghese ha qualcosa di impacciato, anche se in verità il suo stile è inconfondibile, seppure per ragioni diverse. Ne sono parte integrante le sue giacche di colori pastello, sempre abbinate a pantaloni neri o bianchi; anche il taglio dei capelli è rimasto lo stesso. Solo quando è in ferie si concede un berretto da baseball. Molte sue caratteristiche sono celebri, come il suo modo di gestire unendo le mani a forma di rombo. Perché lo fa? Per dare un senso di sostegno e stabilità, non quel senso di chiusura che esprimono le braccia conserte, peraltro impensabili per una donna.
Intorno a lei imperversa la storia: crisi finanziaria, crisi dell’Ue, crisi dell’Ucraina, Brexit, e buona ultima, la crisi dei migranti che in Europa sta sconvolgendo ogni cosa. Ma Merkel rimane se stessa. Non cessa di essere tranquilla. Si mostra ottimista e parla di coesione tra gli europei, i quali frattanto le mostrano in permanenza il dito medio. Ma non è più tranquillizzante. Ancora l’anno scorso era annoverata tra le donne più potenti del mondo, e poteva contare, secondo tutti i sondaggi, sul sostegno della popolazione tedesca. Oggi i commentatori parlano di un «crepuscolo di Merkel». E tutto questo per via di quell’unica frase, espressione del minimalismo merkeliano, che resterà incisa in eterno come un marchio a fuoco sulla sua pelle: «Ce la faremo». Una frase banale, ma pesante come un macigno. Perché ci si chiede: chi è per lei il soggetto di quella frase? E che vuol dire «farcela» ? Rispetto a chi, o a che cosa? Su questo, i tedeschi continueranno a interrogarsi. Fino alle prossime elezioni.
L’autrice è una giornalista del quotidiano Die Welt Traduzione di Elisabetta Horvat