lunedì 5 settembre 2016

Repubblica 5.9.16
Quando il lavoro somiglia alla schiavitù
Nel loro saggio Giovanni Arduino e Loredana Lipperini descrivono le nuove forme di sfruttamento estremo
di Rosaria Amato


Un mondo in cui il lavoro non vale nulla, le persone non valgono nulla, tutto è “low” tranne la fatica, lo smarrimento, la perdita di senso. È il mondo nel quale viviamo, descritto spietatamente da Giovanni Arduino e Loredana Lipperini in Schiavi di un dio minore (Utet). Una realtà alla quale siamo approdati quasi senza rendercene conto: «Eravamo distratti mentre una cultura finiva e ne nasceva un’altra e noi, nell’angolo, non ci accorgevamo neppure di considerare normale che quell’altra prevedesse il non avere diritti». E un lavoratore che non ha diritti non è molto diverso da uno schiavo. Giudizio eccessivo? Gli autori ricordano più volte l’accusa rivolta ai giovani di essere “schizzinosi”, quando si rifiutano di accettare il poco o il pochissimo che viene loro offerto. Su alcune storie non possono esserci dubbi, si tratta proprio di schiavitù. Era una schiava Shila, che cuciva capi d’abbigliamento al Rana Plaza di Dacca ed è sopravvissuta al crollo dell’edificio fatiscente nel quale lavorava ore e ore per pochi dollari, crollo che ha ucciso 1138 persone. Una tragedia annunciata dalle crepe che ogni giorno si aprivano nell’edificio, dagli scricchiolii, ma fino all’ultimo i lavoratori sono stati obbligati a far finta di non vedere, per non perdere un salario misero ma indispensabile. Era una schiava anche la cinese Yu, che lavorava per la Foxconn, fabbrica che produce le meraviglie di cui non possiamo più fare a meno: smartphone, computer, tablet, e che tenta il suicidio perché qualcuno si dimentica di pagarle lo stipendio. Sono mondi lontani, certo, anche se i prodotti fabbricati da Yu e Shila arrivano in occidente e noi li compriamo, felici di potercelo permettere, ignorando che possiamo permetterceli proprio grazie a quei salari da fame.
Eppure la schiavitù è anche qua. Era una schiava per esempio Paola, morta di fatica in Puglia mentre lavora all’acinellatura dell’uva, per 27 euro al giorno. Ed era povera, i poveri ci sono anche in Italia, ce ne sono sempre di più, e ingrossano l’esercito delle persone disposte a quasi tutto pur di avere uno stipendio. E quindi si capisce anche perché possano sembrare normali certe modalità di lavoro “moderne”, come la pausa pranzo ridotta all’osso e la pausa pipì contingentata, che si ritrovano anche all’interno di aziende che hanno una buona reputazione. Sistemi costruiti per tirar fuori dal lavoratore ogni sua minima energia, per spremerlo fino allo spasimo, instillando la nuova etica secondo la quale fare meno di quanto si potrebbe è vergognoso, è contrario all’efficienza, alla velocità. Forme di sfruttamento del lavoro rispetto alle quali i clienti diventano complici, con le loro recensioni che stigmatizzano con grande severità gli impiegati che non danno il massimo, li fanno aspettare o sbagliano qualcosa.
In questo mondo non c’è posto per la cultura, studiare è inutile e chi studia viene preso in giro nelle nuove catene di montaggio. Oppure è fortunato e riesce a ottenere un lavoro intellettuale, magari in un giornale o in una casa editrice, dove rimarrà precario a vita e sarà costretto a lavorare anche a titolo gratuito. Ma volete mettere? Almeno in questo caso starà facendo il lavoro che ama.