Repubblica 30.9.16
Se la politica perde se stessa
di Christian Salmon
JORGE
Luis Borges evoca, in uno dei suoi testi più famosi e divertenti, una
certa enciclopedia cinese secondo cui gli animali si dividono in: «a)
appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d)
maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani randagi, h) inclusi
nella presente classificazione, i) che s’agitano come pazzi, j)
innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di
cammello, l) eccetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano
mosche»… Ho ripensato a questo testo del grande scrittore argentino
osservando il moltiplicarsi dei candidati alle primarie che designeranno
i rappresentanti dei partiti per le presidenziali del 2017. Ma siamo
onesti, non è una specialità francese.
Il processo delle primarie
favorisce la moltiplicazione delle candidature in seno a uno stesso
partito, e talvolta perfino in seno a una stessa tendenza. Per dare
conto di una simile proliferazione di candidature analoghe e cercare di
distinguere fra postulanti così simili gli uni agli altri, i media fanno
ricorso a metafore ispirate agli universi e ai riti del combattimento o
del cimento: dalla corsa a ostacoli (ciclistica o ippica) alla
competizione sportiva, al conflitto di archetipi (la forza di Achille,
l’astuzia di Ulisse), allo spettacolo, alla serie tv ( House of Cards,
Il trono di spade), o ancora al cronotopo della marcia con le sue figure
associate (la traversata del deserto, l’ascensione ai vertici, lo
stallo, la deriva, la caduta).
L’uso della metafora nel discorso
politico non è certo nuovo, ma tende a rafforzarsi quando gli obiettivi
politici o ideologici si fanno meno marcati e il personale politico, per
forza di cose, diventa più omogeneo. Quando più nulla differenzia un
candidato dall’altro sul piano ideologico o politico, bisogna trovare
altre maniere per distinguerli, fuori dall’ambito della razionalità
politica, in universi narrativi e registri linguistici diversi dalla
sintassi politica.
Nell’accavallarsi delle candidature, l’elemento
che fa la differenza è la freschezza del segno: lo scintillio di un
tweet, di un’immagine o di un semplice accessorio. Matteo Renzi ha
saputo sfruttare con abilità questa miniaturizzazione dei grandi
obiettivi politici (#lavoltabuona, la camicia bianca e uno smartphone
Apple, strizzata d’occhio alla serie House of Cards). La
miniaturizzazione agisce come un transistor, il conduttore elettronico
utilizzato nei circuiti come interruttore, come amplificatore di
segnale, che consente di stabilizzare una tensione, modulare un segnale e
tante altre cose. Propongo di definire questo fenomeno della
comunicazione «transistorizzazione » (per cambiare dal pigro
storytelling), nel doppio significato di effetto transistor e di
trasmutazione storica dei dati della politica. Lo sfavillio
dell’eteroclita prende il posto del dissenso democratico. L’esibizione
delle piccole differenze (e del narcisismo che le accompagna) si
sostituisce alle spaccature politiche e alle battaglie ideologiche. Il
prezzo di questo spostamento è la personalizzazione della lotta politica
che aggrava inesorabilmente la spoliticizzazione delle persone, che ci
si sforza di compensare attraverso piattaforme digitali di ogni sorta
seguite da operazioni porta a porta mirate (il clic e il toc toc). Ma a
queste campagne partecipative manca l’essenziale, l’assicurazione di un
linguaggio credibile e di un luogo comune dove scambiarlo, accreditarlo.
Ed è qui che il testo di Borges, forse, ci dice qualcosa sulla crisi
politica che attraversiamo.
Fino a questo momento la vita
politica, che si tratti di processi elettorali, dell’organizzazione del
dibattito pubblico, della pluralità dei partiti o dell’esercizio del
potere, obbediva a una logica di negoziazione. Il campo politico era
attraversato da conflitti di interesse che esprimevano, in ultima
analisi, gli interessi conflittuali dei dipendenti e dei datori di
lavoro. Negoziazione, partiti, rapporti di forza erano i tre concetti
fondamentali della ragione politica.
La condizione politica è
stata rimodellata negli ultimi trent’anni sotto l’effetto di quattro
rivoluzioni intrecciate fra loro, che hanno segnato le società
occidentali: 1. la globalizzazione neoliberista che ha trasformato il
capitalismo e messo in crisi la sovranità degli Stati; 2. la rivoluzione
digitale, la tv via cavo e lo sviluppo di internet, che hanno
scompigliato le condizioni sociali e tecniche della comunicazione
politica; 3. la rivoluzione manageriale che si è imposta sia negli
apparati dello Stato sia nei partiti politici e ha promosso un nuovo
modello di uomo politico, più performer che giurista; 4. una rivoluzione
della soggettività che si traduce, nella sottocultura di massa,
nell’apparizione di un nuovo idealtipo che privilegia i valori di
mobilità e flessibilità a quelli di lealtà e radicamento.
Oggi la
logica della negoziazione cede il posto a una logica di speculazione e
poggia sull’anticipazione di una performance futura. Alla creazione di
un rapporto di forza si sostituisce la logica dell’anticipazione.
Governare non è più semplicemente prevedere, è speculare sul futuro
immediato. E in questa logica non sono più i sindacati o i partiti
rappresentativi che intervengono nell’ambito politico, ma attori che
cercano di valorizzarsi o di bloccare la loro svalutazione. Il modello è
la start-up politica (come quella di Emmanuel Macron o di Donald Trump)
e non più i partiti old school (come il Pd di Matteo Renzi o il Partito
socialista di Manuel Valls). L’atomizzazione dello spettro politico
evocata all’inizio di questo articolo ne è uno degli effetti. Per
l’elettore-scommettitore, non si tratta più di decidere fra partiti,
programmi o visioni del mondo, ma di scommettere sul futuro vincente. Il
sondaggio si sostituisce all’elezione, il sondato all’elettore. La
competenza o l’esperienza cedono il passo all’«indice di futuro» dei
candidati. Le primarie hanno aggravato questa logica. Sono gli stress
test del capitale umano. Anch’esse sono basate su previsioni, scommesse,
e non sulle qualità presunte o accertate di un candidato. L’homo
politicus considerato alla stregua di un qualunque «capitale umano » è
un valore in divenire che si apprezza prelazionando un’offerta politica
invece che sforzandosi di rispondere alle domande dei cittadini. Una
politica dell’offerta politica di cui i sondaggi sono lo strumento
centrale: stanno alla democrazia come le agenzie di rating stanno al
debito. Valutano la credibilità dei candidati sul mercato delle opinioni
allo stesso modo in cui le agenzie di rating valutano la solvibilità
dei mutuatari sui mercati finanziari. Oltre a questo, gli uni e le altre
hanno per missione orchestrare, stimolare, influenzare l’attenzione
dell’opinione pubblica cittadini e produrre fede nel sistema. Lanciatori
di narrazioni, i sondaggi hanno la funzione di mantenere l’attenzione,
di scongiurare la fuga o l’astensione. Se li seguiamo, non è in virtù
del loro valore informativo o predittivo, ma in virtù della loro
funzione drammaturgica(…).
Oggi la perdita di credibilità nelle
istituzioni politiche e nella parola pubblica non è un fenomeno
congiunturale, è un sintomo della crisi di rappresentanza che colpisce
se stessa, legata alla crisi dei vecchi modelli di sovranità statale.
Tutto il processo elettorale ormai è visto con grande scetticismo dagli
elettori: primarie, sondaggi, comizi, talk show. L’elezione, che prima
accreditava l’esercizio del potere e la sua legittimità, è divenuta una
sorta di diffidenza, un esercizio non più istituente, ma destituente.
Per dirla sinteticamente, tutta la piramide del potere si sta
sgretolando sotto i nostri occhi. Non è dunque una «deriva» mediatica
che dobbiamo denunciare, è una linea di frattura politica: è la scena
stessa del politico che si dissigilla e trema sotto i nostri passi.
Perdita del luogo e delle forme stesse del politico. Ecco la triste
sorte di coloro che hanno perduto il «comune» e non hanno più il
linguaggio.
Christian Salmon è scrittore e membro del Centre de Recherches sur les Arts et le Langage ( CNRS).
Tra i suoi saggi “ La politica nell’era dello storytelling” ( ed. Fazi) Traduzione di Fabio Galimberti