Corriere 30.9.16
Le scarse garanzie politiche contro le stragi in darfur
di Alessandra Muglia
So
no immagini e testimonianze raccapriccianti quelle che raccontano la
lenta agonia di donne, bambini e uomini colpiti da armi chimiche nella
regione sudanese del Darfur. I civili deceduti sono oltre 200, per lo
più bambini, e centinaia di sopravvissuti vomitano sangue, hanno la
pelle piena di pustole e vesciche, non ci vedono più, non riescono a
respirare. Prove raccolte con fatica attraverso riprese satellitari e
lunghe interviste telefoniche visto che il governo sudanese non consente
di fare indagini sul posto. Il rapporto diffuso ieri da Amnesty ha
documentato le prime denunce divulgate ad aprile dalla ong Italians for
Darfur.
Agenti chimici contenuti in bombe aeree e razzi sarebbero
stati sganciati in almeno 30 attacchi da gennaio. Incursioni che si
inquadrano nell’offensiva su larga scala lanciata in Darfur all’inizio
dell’anno dall’esercito sudanese. Ma nella maggior parte dei 171
villaggi colpiti non vi erano ribelli.
E c’è il rischio di
imboccare una strada ancora più grave dell’indifferenza. La crisi
migratoria ha spinto di recente la Ue a rivedere la propria politica
verso il Sudan, elevato a partner regionale nel controllo dei flussi. Ma
che garanzie di rispetto per i diritti umani può dare un Paese
governato dal 1989 da un presidente, Omar Bashir, accusato (nel 2009)
dalla Corte penale internazionale dell’Aja di crimini contro l’umanità e
genocidio commessi in Darfur? L’Europa la scorsa primavera si era detta
pronta a sostenere il Sudan con 100 milioni di euro per «progetti volti
a migliorare le condizioni di vita dei profughi sfollati interni e
comunità ospitanti, a sostenere il reinserimento di quanti tornano nel
Paese e migliorare la sicurezza alle frontiere». Quest’ultimo punto
desta più preoccupazione: si teme che i fondi europei possano finire
alle spietate milizie Janjaweed, famigerate per le atrocità in Darfur.
L’Europa non deve permetterlo.