Repubblica 30.9.16
Rosenberg la non banalità del male
La storia del diario ritrovato del gerarca nazista che teorizzò la mistica del sangue e l’Olocausto. E che anche Hitler temeva
di Wlodek Goldkorn
Capita
che il male non rasenti la banalità, anzi, che proprio quando si tratta
di un nazista, il Male non sia una serie di procedure burocratiche o
stupidità (come invece ipotizzava Hannah Arendt parlando di Eichmann),
ma assuma le sembianze di una persona e diventi pensiero egemone. È il
caso di Alfred Rosenberg, architetto di mestiere, classe 1892, nato in
Estonia a Reval, oggi Tallinn, studente a Riga in Lettonia, laureato a
Mosca, innamorato della letteratura classica russa e che a partire dagli
anni Venti diventa il principale
ideologo del nazismo, teorico
dell’antisemitismo radicale e inventore di una di mistica alternativa al
cristianesimo. Condannato a morte a Norimberga e impiccato, alla storia
è passato (si fa per dire) per Il mito del ventesimo secolo dove tre
anni prima dell’arrivo di Hitler al potere, affascinato dalla lettura
dei Protocolli dei savi di Sion e traumatizzato dalla rivoluzione
bolscevica (lui all’epoca era a Mosca), narrava di un presunto complotto
giudeo- comunista ai danni dell’umanità e della Germania. Ma poi andava
oltre: teorizzava appunto la mistica del sangue e della razza ariana e
sosteneva che Gesù non era ebreo e che siano state le chiese cristiane a
falsificare la “vera storia”.
Questa mitologia, per quanto oggi
possa sembrare ridicola, ai tempi era di forte richiamo, anche perché
attingeva a fonti potenti come Wagner, Fichte, Schopenhauer, Nietzsche e
via elencando. Tanto che Il mito del ventesimo secolo fu il secondo
libro più venduto del Reich (dopo il Mein Kampf).
Il radicalismo
di Rosenberg era tale da suscitare una certa diffidenza da parte dello
stesso Führer (diffidenza dettata dalla tattica, i valori erano
condivisi) e l’inimicizia di gerarchi come Goebbels, Himmler e Goering.
Per sfogare le frustrazioni (non divenne mai il numero due del regime) e
probabilmente per tramandare un insegnamento alle future generazioni,
Rosenberg, a partire dal 1934 tenne un diario. Che, finita la guerra
andò disperso. È in un uscita in questi giorni Il diario perduto del
nazismo. I segreti di Adolf Hitler nei diari inediti di Alfred Rosenberg
e del Terzo Reich, scritto da Robert K. Wittman, un ex agente del Fbi, e
da David Kinney, giornalista premio Pulitzer (Newton Compton).
Al
centro della trama, oltre al nazista e alle sue carte c’è l’uomo che
portò alla sua condanna a morte, Robert Kempner. Kempner, a sua volta,
era un ebreo tedesco, avvocato intelligente e spregiudicato, fuggito nel
1936 dalla Germania, approdato negli Stati Uniti, collaboratore dei
servizi segreti americani e infine procuratore al celebre processo dei
gerarchi del Terzo Reich. Affascinante, spietato (negli interrogatori
era durissimo con gli imputati, al limite del lecito), Kempner aveva un
certo successo con le donne; le sue assistenti diventavano le sue
amanti. Non si tratta di un pettegolezzo in un libro che in apparenza
potrebbe risultare sensazionalistico - e non lo è grazie alla buona
ricostruzione storica - ma di un dettaglio fondamentale. Le carte di
Rosenberg, finito il processo, Kempner le ha portate negli Usa. Ma non
lo sapeva nessuno.
La storia del ritrovamento è una specie di
thriller e raccontarla toglierebbe gusto alla lettura. Per sommi capi:
le carte le ha scoperte, con l’aiuto di un archivista del Museo
dell’Olocausto, negli anni Novanta, l’agente del Fbi Wittman (uno degli
autori del volume). Non erano tutte, erano disordinate ed erano gestite
dall’ex-assistente di Kempner. E lì sono sorte le prime difficoltà nella
trasmissione del tesoro al Museo. Successivamente, e diversi anni dopo,
Wittman, ormai pensionato, ritrovò altre carte, in modo da completare
il diario sparito. Che dal 2013 è a Washington, a disposizione degli
studiosi. Detto così, sembra semplice, ma nel frattempo i documenti
finirono in mano a un altro personaggio strano che ebbe una grande
influenza sulla ex assistente, e che tentò di portarle in Canada. La
storia di quel diario, circa 400 cartelle ci dice alcune cose. La prima:
era interessante per gli storici entrare nelle stanze segrete della
cerchia ristretta di Hitler. Rosenberg racconta infatti, dal suo punto
di vista, le motivazioni di certe decisioni prese dal Führer, nonché le
dinamiche di potere degli uomini al vertice del Reich. La seconda cosa
che mettono in rilievo gli autori è la personalità controver- sa di
Kempner. Il più famoso tra gli accusatori di Norimberga non solo nascose
in casa sua documenti che avrebbe dovuto depositare negli archivi delle
istituzioni statali, ma aiutò pure, in quanto avvocato, la vedova di
Goering. Insomma, l’uomo non era l’incarnazione del Bene.
E
Rosenberg? Cresciuto in città periferiche e multiculturali Tallin e
Riga, dove abitavano tedeschi, estoni, lettoni, russi, ebrei e che
appartenevano all’Impero zarista, decise che la purezza della razza era
l’unico valore assoluto, quasi a rinnegare la propria infanzia e
gioventù, quasi a cercare di essere più tedesco dei tedeschi: capita ai
neofiti. Cercava di muovere la guerra a oltranza contro le chiese, ma
Hitler non lo seguì (o meglio gli diede retta solo parzialmente), tanto
che il Mito del ventesimo secolo finì sull’Indice dei libri proibiti
dalla Santa Sede, mentre Mein Kampf, no. Durante la guerra fu ministro
per i territori occupati dell’Est, ma si occupava anche della razzia
delle opere d’arte all’Ovest, soprattutto a Parigi e in Francia. Il
libro racconta bene la natura profondamente corrotta dei gerarchi
nazisti in lite tra di loro su come accaparrarsi i tesori delle vittime.
Su una cosa erano unanimi e Rosenberg lo narra nel suo Diario. In una
riunione un anno prima dell’invasione dell’Urss, discutevano degli
ebrei. Lui, Rosenberg parlava di futuri e terribili pogrom in terre
russe e ucraine. Hitler ipotizzò che di fronte ai massacri l’Europa
tutta si sarebbe levata in difesa degli ebrei. I nazisti risero
fragorosamente: capirono che quella del Führer era una barzelletta.
Avevano ragione.
Ultima annotazione: gli autori più volte usano il
termine “razza ebraica”. Nel contesto di un libro sull’ideologo della
razza non è elegantissimo.
IL LIBRO Robert K. Wittman e David Kinney, Il diario perduto del nazismo (Newton Compton, pagg. 432, euro 12)