venerdì 30 settembre 2016

Repubblica 30.9.16
Prima del ponte ripariamo l’Italia
di Michele Serra

MA IL Matteo Renzi che riapre il capitolo “ponte sullo Stretto” è lo stesso Matteo Renzi che pochi giorni dopo il terremoto volò a Genova da Renzo Piano per farsi spiegare come funzionano i cantieri leggeri, come si mette in sicurezza il patrimonio edilizio nazionale, come si rammenda l’Italia?
La domanda non è astrattamente polemica. È concretamente politica. Se posso dire, è dieci volte più politica di qualunque quesito sul funzionamento “tecnico” dello Stato e sulla legge elettorale. Perché riguarda — strutturalmente e strategicamente — il futuro della comunità Italia. Le due opzioni strategiche (ponte sullo Stretto, operazione aggiusta-Italia) possono coesistere solo in via del tutto teorica.
ELLA pratica, le risorse pubbliche limitate e il patto di stabilità europeo, anche nella sua accezione più lasca, rendono obbligatorio e perfino ovvio darsi delle priorità di spesa, e dunque fare scelte precise e qualificanti. Nel farle — tra l’altro — si restituiscono alla politica una funzione e un prestigio immediatamente leggibili dai cittadini. Quale idea di Italia abbia la politica (quella del governo, quella delle opposizioni), quali progetti a media e lunga scadenza, quali scelte di fondo intenda fare, quali paradigmi intenda applicare e quali rifiutare: non è forse questo che manca, in questo scorcio d’epoca, alle classi dirigenti, che le dequalifica, che le rende (vox populi) “tutte uguali”, ovvero tutte ugualmente al traino di decisioni prese altrove, esecutrici passive di politiche già date, calcolate a tavolino da autorità monetarie e bancarie? Quali altre carte ha da giocare, la politica, per rifarsi un nome e una faccia, se non riservarsi di scegliere, se non la quantità della spesa pubblica, almeno la sua qualità?
Ebbene, dire “Casa Italia” (il progetto antisismico bi-generazionale ventilato dal governo Renzi con la benedizione e il know-how di Renzo Piano) e dire “ponte sullo Stretto” è dire, a proposito del nostro paese, due cose opposte, che potrebbero coesistere tecnicamente solo nel caso che una vagonata di miliardi, proveniente da un’altra galassia, cadesse su Roma, magari riuscendo a centrare i ministeri giusti; rimanendo comunque due scelte opposte anche nel caso di una improvvisa e inopinata disponibilità di denaro. Da un lato l’idea che un’opera nuova e grandiosa possa fare da volano per rilanciare sia l’economia, sia l’autostima di un paese preoccupato e incerto; dall’altro quella che una moltitudine di medie, piccole e piccolissime opere possano costituire, tutte insieme, non solo la più grande “grande opera” mai concepita in Italia (con una ricaduta economica straordinaria), ma la più necessaria e la più adatta. Soprattutto la più adatta: quella che guarda alla storia e al territorio del Paese con miglior precisione e maggiore lungimiranza.
Si deve partire da quello che siamo e da quello che abbiamo. Noi non siamo un paese da inventare ex novo. Non abbiamo grandi pianure vergini, territori da colonizzare, nuove frontiere da immaginare. Siamo un paese di antichissima civiltà, fittamente popolato, per il 75 per cento montuoso (dunque franoso, e per giunta tellurico), fatto di infinite e preziose città e cittadine, piazze di pietra e di portici, chiese, palazzi, musei, arte quanta ne basterebbe per il fabbisogno estetico e culturale di mezzo pianeta, pur essendo l’Italia, del pianeta, appena un piccolo lembo. Tutto o quasi tutto da noi è, anche per ragioni orografiche e idrogeologiche, prezioso e fragile, un cesello miracoloso che non è solamente memoria o testimonianza del passato, ma pulsa di vita presente, di attività manifatturiere all’avanguardia, di innovazione tecnologica, di un tessuto agro-gastronomico unico al mondo; e sulla sua eccezionalità urbanistica, artistica, artigianale, sul suo ingegno laborioso, l’Italia “sente” di potere costruire il suo futuro.
Aggiustare l’Italia, metterla in sicurezza, proteggerne le specificità paesaggistiche ed economiche, accettarne la frammentazione e la multipolarità e dunque puntare moltissimo su trasporti (anche locali!) e infrastrutture (la banda larga!): non ce n’è abbastanza per impegnare almeno due generazioni lungo un percorso che fa tremare le vene ai polsi per quanto è difficile, ma riempie cuori e cervelli per quanto è giusto e utile? Come possiamo immaginare un ponte tra Messina e Reggio, anche il più bello, il più solido, il più ardito dei ponti, se prima non abbiamo rimesso in piedi il nostro paese a partire dalle sue case, dalle sue strade, dalle sue ferrovie, dai suoi fiumi, dalle sue montagne? E’ il suo tessuto ordinario a costituire la straordinarietà italiana. Quale famiglia investirebbe quattrini in alcunché, se prima non ha riparato il tetto che lascia passare la pioggia, o rinsaldato i muri che stanno crepando?
Giusto ieri Matteo Renzi ha assicurato che i finanziamenti per Casa Italia ci sono. Aggiungendo che manca ancora un vaglio preciso dei costi, e senza fare cenno — come invece ha fatto riguardo al ponte — alla potenziale ricaduta economica (nuovi cantieri, posti di lavoro, indotto). Perché non chiede a Confindustria, alle associazioni dei costruttori, ai sindacati e ai loro centri studi, alle Facoltà di economia di dargli una mano per quantificare meglio costi e ricavi di Casa Italia, che per giunta è solamente un pezzo dell’immensa opera necessaria per la riparazione e la messa in sicurezza del paese? Valuti poi — e questo spetta a lui, questo è il nocciolo del suo mestiere — costi e ricavi politici di una sua scelta strategica riguardo alle priorità progettuali per l’Italia futura: che cosa si deve fare prima, che cosa si deve fare dopo, che cosa mai. Valuti chi starebbe dalla sua parte, chi contro, nell’uno o nell’altro caso, chi preferirebbe puntare sul ponte sullo Stretto, chi sulla rete capillare dei cantieri di “rammendo” dell’Italia sdrucita. Sarebbe, quella, una divisività sana, chiara, dalla quale la politica uscirebbe più forte e rispettata, perché capace di scegliere. Renzismo e antirenzismo assumerebbero finalmente una consistenza “pubblica” e uno spessore politico. Tornare a dividersi sull’uso del tempo, dello spazio, del denaro: allora sì che tornerebbe la politica