Repubblica 30.9.16
La verità del cinema sul mistero Orlandi “Chi sa è in Vaticano”
Esce
il film di Faenza sulla 15enne sparita a Roma nell’83. Il fratello di
Emanuela nei panni di se stesso a caccia di dossier segreti
di Massimo Lugli
ROMA.
«Li avete visti quei manifesti alla stazione? ». Fu Sandro Mazzerioli,
un roccioso capocronista di Paese sera, a farceli notare: la foto di una
ragazza di 15 anni con una fascetta nera sulla fronte e lo sguardo
malinconico nonostante il sorriso solare. In basso, un numero di
telefono da chiamare se qualcuno l’avesse vista. Scomparsa. Una delle
tante adolescenti svanite nel nulla in una città in cui ancora si
parlava di tratta delle bianche, di negozi d’abbigliamento con una
botola segreta per intrappolare le clienti giovani, di adolescenti
rapite e avviate al mercato della prostituzione d’oltremare. Nessuno di
noi giovani cronisti che cominciammo, svogliatamente, a lavorarci poteva
immaginare che quel viso da ragazzina di buona famiglia sarebbe
diventata l’icona di uno dei più grandi misteri degli ultimi
cinquant’anni, un groviglio di intrecci criminali, speculazioni
finanziarie, magheggi di servizi segreti italiani e bulgari, false
piste, rivelazioni pilotate, depistaggi, intrighi, imbrogli,
speculazioni di ogni genere. Non fino a quando Paolo VI, dal balcone di
piazza San Pietro, lanciò il suo appello per i familiari e catapultò il
caso di Emanuela su una ribalta mondiale. I primi pezzi erano poco più
di una breve di cronaca, poi la storia balzò in prima pagina e ci rimase
per anni.
Una tragedia infinita, iniziata il 22 giugno dell’83,
negli anni di piombo e di sangue del terrorismo e della grande mala
romana dilaniata da feroci faide interne, che Roberto Faenza ripercorre
passo passo fin dall’inizio, in un film che sembra quasi un romanzo
storico tanto quei tempi appaiono lontani: niente internet, niente
cellulari, indagini a suola e tacco di appostamenti e confidenti,
intercettazioni rudimentali. E nello stesso giorno in cui La verità sta
in cielo debutta nelle sale, in libreria esce La verità sul caso Orlandi
di Vito Bruschini, Newton & Compton editori, con un inizio
molto simile alla sceneggiatura di Faenza, Murgia e Notariale, ma una
conclusione romanzata completamente diversa. Il mistero di Emanuela
Orlandi è un evergreen.
L’inchiesta è stata definitivamente
archiviata il 6 maggio scorso, con aspri dissidi interni alla procura di
Roma. Un’indagine controversa e spettacolare, con un colpo di teatro da
docufiction quando la tomba di Enrico De Pedis, detto Renatino, boss
del gruppo testaccino sepolto nella Basilica di Sant’Apollinare, fu
riaperta alla ricerca di improbabili indizi. Qualcuno insinuò
addirittura che lì dentro potessero esserci i resti di Emanuela.
Un’ipotesi delirante ma del resto, in questi trent’anni, si è sentito di
tutto: la ragazza è viva, è ricoverata in un ospedale psichiatrico di
Londra, si è nascosta su un’isola greca, è a Roma, senza memoria e con
un falso nome.
Tra le tante “rivelazioni” a puntate buone per le
indagini in tivù, il film di Faenza punta molto su quelle di Sabrina
Minardi, donna di mala e di coca, ex compagna di De Pedis, che ha
parlato e straparlato, rovesciando sugli investigatori qualche mezza
verità mista a una montagna di menzogne fino a quando i pm, spazientiti,
le hanno tappato la bocca con un inedito decreto di secretazione. La
tesi del film è sostanzialmente quella: un asse Ior-Banda della Magliana
con le immancabili ingerenze dei soliti spioni. Una pista intrigante e,
sostanzialmente, plausibile visto che i legami tra la gang del
“Pijamose Roma” e le speculazioni del Banco Ambrosiano sono stati
definitivamente accertati. Per quanto riguarda Emanuela, invece, solo
ipotesi. Esiste veramente una verità sepolta in un dossier segreto
promesso e mai consegnato, nascosto in una “segreta stanza” di
Oltretevere? Paolo Orlandi, instancabile fratello di Emanuela che nel
film interpreta se stesso ne è certo. Il regista, evidentemente, anche.
Chi ha seguito l’indagine fin dalle prime battute, invece, continua a
ruminare dubbi. Qualcosa, alla lunga, sarebbe venuto fuori. E se lo
scenario fosse completamente diverso? Se Emanuela fosse finita in mano
di un predatore sessuale occasionale e tutto il resto fosse solo una
mastodontica montatura di spie e grande criminalità? È un’ipotesi, non
meno probabile di tante altre. Un film, comunque, non deve trovare la
verità. Deve dare emozioni. E le emozioni, di sicuro, non mancano, dalla
prima all’ultima scena, quando un vescovo che ha l’aria di saperla
lunga scandisce lapidario: «Meglio il clamore che il silenzio». Su
questo, almeno su questo, non ci sono dubbi.