Repubblica 30.9.16
Il mio amico Shimon Peres l’uomo che inseguiva il futuro
Tormentato dal sangue
Voleva diventare poeta guidò invece Israele
di David Grossman
Era
convinto che la fiducia nell’avvenire potesse generare un’energia utile
a superare gli ostacoli del passato e del presente Mi disse: “Il più
grande nemico della democrazia nel mondo arabo sono i mariti che provano
a negare l’uguaglianza alle mogli”
David Grossman, 62 anni, uno degli scrittori israeliani più noti e tradotti nel mondo
Gerusalemme:
il dolore di un uomo davanti alla Knesset, il Parlamento israeliano,
dove è stata allestita la camera ardente di Shimon Peres, ex presidente
morto mercoledì all’età di 93 anni
DICIOTTO anni fa,
come parte di un programma televisivo sulla sua vita, Shimon Peres mi
propose di accompagnarlo in visita a Vishneva, in Bielorussia, il suo
paese natale. Arrivammo a una modesta casa di campagna, fatta in gran
parte di legno, con un ampio cortile in cui razzolavano polli.
Nonostante ci avessero avvertiti di non bere l’acqua del pozzo
(Chernobyl ha avvelenato il suolo, spiegava la gente del posto), Peres
vi calò un secchio assicurato alla catena, lo tirò su, versò l’acqua in
una tazza di latta e la bevve avidamente. Quella era l’acqua della sua
infanzia. Poi mi raccontò che da bambino era stato osservante e una
volta aveva fracassato la radio perché suo padre l’aveva accesa di
sabato. Gli domandai se suo padre lo avesse mai picchiato.
«Nessuno mi ha mai picchiato », rispose Peres con una specie di orgoglio.
«Nessuno?»,
gli chiesi. «Mai? Non hai mai fatto a botte a scuola? Non te le hanno
mai date mentre giocavi?» «Mai. Nessuno mi ha mai toccato, e io non ho
mai toccato nessuno».Pensai che come uomo politico Peres era stato
attaccato e “massacrato” un’infinità di volte dai mass media, dai suoi
colleghi parlamentari alla Knesset, e nell’arena pubblica israeliana.
Non aveva però mai vissuto un’esperienza condivisa da quasi tutti i
bambini. E forse quella era una possibile chiave di lettura — una delle
tante — per capire la sua personalità e il suo modo di relazionarsi agli
altri. Malgrado il suo attivismo politico e il suo istintivo e
appassionato coinvolgimento negli intrighi della politica, Peres
trasmetteva infatti anche un senso di distacco e di estraneità alla
società israeliana, che sembrava non averlo accettato del tutto.
«È
la fine di un’epoca», hanno detto oggi molti commentatori, e fra loro
anche leader della destra che avevano amareggiato la vita di Peres e lo
avevano deriso per i suoi «deliri di pace». Ma l’epoca di Peres, e del
suo sogno, in realtà, è finita da tempo, a metà degli anni 90, con
l’assassinio di Rabin e, ancora prima, con il fallimento degli accordi
di Oslo che l’allora ministro degli Esteri Peres aveva imbastito alle
spalle del capo del governo, Rabin.
Il fallimento degli accordi e
l’ondata di violenza che ne era seguita avevano suscitato in gran parte
degli israeliani la sensazione che il loro Paese avesse commesso un
terribile errore a fidarsi di Arafat e dei palestinesi. Peres, agli
occhi della maggioranza degli israeliani, era considerato responsabile
al pari di Rabin di quell’iniziativa. «I criminali di Oslo», li
chiamavano alle manifestazioni di destra, proclamando che avevano sulla
coscienza la morte di mille israeliani, vittime degli attentati
terroristici seguiti al fallimento degli accordi (come se, senza quegli
accordi, i palestinesi potessero continuare a vivere sottomessi e in
silenzio per l’eternità sotto l’occupazione israeliana).
L’odio
verso Peres, in quegli anni, era forse anche dovuto al fatto che lui,
con il suo eloquio forbito e la rara capacità di risvegliare speranze e
aprire una finestra sul futuro, era riuscito a far credere agli
israeliani (sospettosi e segnati dalle cicatrici delle guerre) che ci
fosse la possibilità di un domani diverso, di pace. Noi, contrariamente
ai nostri istinti, ci eravamo lasciati tentare per un breve periodo dal
miraggio di quel nuovo Medio Oriente che ci aveva prospettato e avevamo
tradito il tragico destino di guerre e sciagure che ci portiamo inciso
nella carne da tempo immemorabile. E quando gli accordi di Oslo erano
falliti, quando la speranza che ci eravamo concessi di coltivare, anche
solo per un attimo, era andata delusa, non lo avevamo perdonato.
Peres
era un uomo proiettato nel futuro. In un Paese sempre più intriso di
narrativa mitologica, religiosa, tribale, lui guardava all’universale,
alla scienza, alla razionalità, alla democrazia della libera
informazione. Si lanciava come una specie di àncora in un futuro
lontano, invisibile, immaginario, utopico e ottimista, verso il quale
poi procedeva con energia. Era profondamente convinto che la fiducia nel
futuro è in grado di generare un’energia che ci permette di superare
gli ostacoli del passato e del presente, di sconfiggere la disperazione e
l’apatia responsabili dello sgretolamento della società israeliana.
Ecco
un piccolo esempio di come Shimon Peres ragionava e agiva. «Sono andato
da Putin », mi raccontò non molto tempo fa, quando aveva già quasi
novant’anni, «e gli ho detto: tra un anno, allo scadere dello storico
accordo con la Gran Bretagna e la Francia, l’Egitto perderà il controllo
delle riserve idriche del Nilo. L’Etiopia già ne rivendica il dominio e
c’è pericolo che scoppi una guerra. Potremmo andare insieme da Morsi
(all’epoca presidente dell’Egitto), e dirgli: noi, in Israele,
possediamo le conoscenze e le tecniche per moltiplicare l’acqua del
Nilo! Il fatto è che Morsi a me non darebbe ascolto», proseguì Peres,
«però a lei sì, signor Putin. Ma non presenteremo la nostra proposta
come un’iniziativa di governo. Gli Stati ormai sono fuori moda. La
faremo passare per un progetto imprenditoriale. Al giorno d’oggi sono le
grandi società ad amministrare il mondo…».
Era così che Peres
aveva ragionato e lavorato per tutta la vita. Il presente —
sconfortante, fiacco, piatto — era solo un ostacolo momentaneo al quale
non si doveva soccombere. Rinunciare a fare qualcosa non rappresentava
un’opzione per lui. L’inazione di Netanyahu nel negoziato con i
palestinesi lo faceva uscire dai gangheri. Era un atteggiamento
contrario al suo codice genetico. Un codice genetico che lo spingeva ad
andare avanti, a creare, a intraprendere iniziative. Di tanto in tanto,
quando discorrevo con lui, percepivo che ciò che si celava dietro il suo
inesauribile ottimismo era il timore per il nazionalismo e il fanatismo
generati dalla disperazione. Lui sapeva — e fino all’ultimo non si è
rassegnato — che in questa regione si sta plasmando una realtà tragica
per entrambi i popoli, e lui, Peres, apparteneva alla fazione sconfitta
dalla storia.
Peres ha fatto grandi cose, splendide. Ha contributo
enormemente alla sicurezza, all’economia e al progresso scientifico di
Israele. Ma ha fallito nel raggiungere il suo obiettivo principale: la
pace tra Israele e i suoi vicini. Sembrava che nel momento fatidico,
quand’era necessario compiere un passo davvero coraggioso e ineluttabile
— lui non osasse abbastanza, non agisse con la determinazione promessa.
Peres
era un uomo pieno di contraddizioni e di contrasti. Da ragazzo sognava
di diventare «pastore e poeta delle stelle», invece era diventato il
leader di una nazione tormentata da guerre e da spargimenti di sangue.
Era un uomo di vasta cultura e dai profondi valori umani ma sulla cui
coscienza pesava la morte di cento rifugiati palestinesi, colpiti nel
1995 da un bombardamento israeliano sul villaggio di Kfar Kana, in
Libano.
Era un politico che per anni aveva sostenuto gli
insediamenti e rifiutato la soluzione di uno Stato palestinese ma era
diventato lo statista che, più di qualunque altro, incarnava la
disponibilità a raggiungere un compromesso con i palestinesi e
l’aspirazione a siglare con loro la pace. E per quanto fosse privo di
remore e manipolatore nella lotta contro i suoi rivali, era un uomo di
grande statura morale, e questo era impossibile non percepirlo.
Col
tempo si potrà cercare di capire meglio la sua figura. Ma forse erano
proprio le qualità che lo rendevano tanto complesso e affascinante ad
avere scoraggiato la maggior parte degli israeliani a sceglierlo come
leader politico. Yitzhak Rabin, avversario di Peres per decenni, era
stato più popolare di lui per gran parte della sua vita, più
accessibile, più decifrabile. L’intricata personalità di Peres non solo
gli aveva impedito di vincere le elezioni ma gli aveva anche negato ciò
che leader meno abili di lui erano in grado di conquistare: l’amore
delle masse.
Peres, infatti, fin dall’inizio della carriera, era
stato un personaggio importante ma non esattamente amato. Non era
schietto, comunicativo; non sapeva parlare al cuore degli israeliani, o,
meglio, ai loro istinti. Per questo i suoi ultimi anni da presidente
erano stati tanto belli per lui. Per la prima volta aveva percepito
l’amore della gente, aveva la sensazione di essersi conquistato un posto
nel cuore di chi lo aveva sempre considerato un visionario, talvolta
anche un traditore.
E io lo ricorderò così: una sera, quand’era
ancora presidente, gli telefonai per coinvolgerlo in un’iniziativa che
pensavo gli sarebbe interessata. «Perché al telefono?», disse lui. «Se
non hai da fare perché non vieni a cena? ». Il palazzo presidenziale era
quasi completamente buio e Peres sembrava solo e vecchio tra le giovani
guardie del corpo. Ma quando entrai si raddrizzò, il suo sguardò si
accese, riprese vita. Subito si lanciò in un monologo sulla debolezza
dei governi del mondo, incapaci di risolvere problemi importanti in
campo economico e sui temi della sicurezza e della lotta al terrorismo
Poi mi parlò di un nuovo progetto scientifico del Centro Peres per la
Pace che avrebbe rappresentato «un passo avanti per la medicina». «Tra
poco tutte le medicine ci verranno somministrate con la frutta», disse.
«Analgesici e farmaci
anti aging ». Infine si mise a disquisire di
nanotecnologia (uno dei suoi argomenti preferiti) e dei campi di
battaglia del futuro, «in cui svolazzeranno calabroni elettronici
comandati a distanza». Mi raccontò del «più grande nemico della
democrazia nel mondo arabo: i mariti, che cercano di impedire alle mogli
di ottenere l’uguaglianza», e dei cinque libri che stava leggendo
contemporaneamente. Uno era Cinquanta sfumature di grigio: «Mi ha
annoiato. Zero creatività, nessun vero erotismo».
La cena fu
frugale, come quelle dei suoi giorni al kibbutz: frittata con funghi,
insalata tagliata fina fina, un po’ di formaggio, pane al cumino e un
bicchiere di vino rosso. Peres parlava e rideva. Mi raccontò dello
storico incontro — al quale era stato presente — tra David Ben Gurion e
Charles de Gaulle. Io lo guardavo. Mi ero affezionato a lui negli anni
in cui avevo avuto il piacere di conoscerlo e lo ammiravo molto. Erano
proprio le sue contraddizioni a renderlo toccante e commovente ai miei
occhi. Avevo pensato: quest’uomo è stato testimone di quasi un secolo di
storia e lui stesso ha lasciato un’impronta. Sono pochissime le persone
che hanno avuto una vita tanto piena ed emozionante come la sua. Glielo
dissi. Lui agitò la mano con noncuranza: «Sono appena agli inizi»,
esclamò ridendo. E per un istante sembrò felice, quasi credesse a ciò
che aveva detto.
(Traduzione di Alessandra Shomroni)