giovedì 29 settembre 2016

Repubblica 29.9.16
Quella domanda su Arafat
di Marek Halter

CONOBBI Shimon Peres negli anni Sessanta, a casa del fondatore dello Stato israeliano, Ben Gurion, che ero andato a intervistare nel suo kibbutz nel deserto del Negev. All’epoca, Shimon aveva una quarantina d’anni, era un uomo elegante e dai modi garbati. Dopo l’intervista, Gurion mi chiese se per rientrare a Tel Aviv mi serviva un passaggio, perché dovevano andarci anche loro due. Accettai molto volentieri e salimmo in macchina, Shimon davanti, Gurion ed io dietro. Era estate e viaggiavamo con i finestrini aperti. All’epoca, quando si entrava a Tel Aviv si era costretti ad attraversare un quartiere pieno di prostitute. A un semaforo rosso la macchina si fermò, una di queste si avvicinò e mi chiese in yiddish, la lingua di mia madre, se volevo andare con lei. Io rimasi di stucco e alzai in fretta il finestrino. Gurion mi guardò sorridente e disse: «Vede, adesso siamo diventati un Paese normale, perché abbiamo anche noi le nostre prostitute così come abbiamo i nostri ladri e i nostri assassini». Io gli risposi subito che quella normalità non mi piaceva affatto. Fu allora che intervenne Shimon, dicendo: «Ha ragione questo giovane giornalista, perché dopo tutto quello che ci è successo dovremmo riuscire a costruire un Paese diverso dagli altri ».
Da allora, ogni volta che mi sono recato in Israele, sono andato a trovarlo, prima a Tel Aviv, poi, quando cambiò casa, a Gerusalemme. Alla fine degli anni Ottanta m’invitò a una cena, e sapeva che io ero stato poco prima da Yasser Arafat a Tunisi. A un certo punto, Shimon mi chiese come stava il leader palestinese. Ed io, senza neanche pensarci troppo, gli risposi: «Invecchia». Al che, lui esclamò: «Perfetto, è giunto il momento di cominciare a lavorare a un accordo di pace con i palestinesi ». Li invitai entrambi a Parigi, e ricordo ancora la loro prima discussione, durata più di tre ore, vicino all’aeroporto di Orly. Quando Shimon andò via, chiesi ad Arafat come gli era sembrato. E lui mi rispose: «È sicuramente una brava persona, però, per fare la pace devo parlare con un generale». Il giorno dopo, quando chiamai Shimon e gli riferii le parole di Arafat, lui ci restò male. Poi mi disse: «Se è un generale che gli serve, allora che parli con Rabin». Così fu, e i negoziati furono avviati nel migliore dei modi possibili, tanto che sfociarono nei cosiddetti accordi di Oslo. Però, quando Clinton invitò Rabin e Arafat a Washington per il trattato, il capo palestinese s’impuntò perché voleva che ci fosse anche Shimon Peres, il quale non aveva partecipato ai negoziati se non nella loro fase molto iniziale. Alla fine fu invitato anche Shimon, il che gli valse il Nobel per la pace. Ora, la pace che lui immaginava doveva riposare su una struttura confederata del Medio Oriente, con gli Stati membri, ossia Israele, Palestina, Egitto, Siria e Giordania, uniti da legami commerciali e da un patto di non aggressione reciproca. Purtroppo questa realtà è ancora lontana dall’avverarsi. L’ultima volta lo vidi a Parigi un anno e mezzo fa, dove era stato invitato dal presidente François Hollande. Andai a trovarlo al suo albergo, e Shimon mi apparve stanco. Ma lui, a differenza della maggior parte dei tanti politici che ho incontrato in vita mia, aveva un forte senso dell’umorismo. Era un uomo che rideva spesso, soprattutto di sé. E quella volta, per ridere della sua età mi raccontò la seguente barzelletta, incentrata sul fatto che quando gli ebrei compiono gli anni gli si augura di viverne 120, perché tanti ne visse Mosè. «E tu lo sai che cosa bisogna augurare a chi compie 120 anni?», mi chiese Shimon. «Ebbene, basta dirgli buona giornata».
Adesso quello che mi dispiace e che non posso più augurargli: «Buona giornata, caro Shimon».