Repubblica 28.9.16
L’eterno ritorno elettorale della chimera sullo Stretto
di Francesco Merlo
ETERNO
ritorno di una chimera, demagogia per lucrare consenso, il ponte sullo
Stretto, non quello comico di Checco Zalone — “tengo na fimmina a
Missina, cu u punti ma fazzu prima” — forse può esser costruito.
MA
sicuramente non può essere annunziato dal presidente del Consiglio in
deficit di popolarità con una strizzatina d’occhio e un mezzo sorriso
che sono peggio dei botti, delle lavagne in tv e dei nastri sul nulla di
tanti governi del passato.
Un governo che davvero voglia
coraggiosamente realizzare un’opera così problematica e così contestata
dovrebbe mettere su una squadra di esperti che lavori nell’ombra e in
silenzio almeno per un anno. E il progetto di fattibilità economica,
tecnica e urbanistica senza fare tabula rasa dovrebbe disboscare,
verificare e riutilizzare i tanti studi precedenti che, comprese le
penali, sono già costati agli italiani centinaia di milioni. Ecco, è
quasi il prezzo di un vero ponte dunque, che però solo gli scrittori e i
giornalisti hanno attraversato a bordo delle loro macchine da scrivere.
L’annuncio
per un’opera del genere non si può fare così, come ha fatto Renzi a
Milano, parlando d’altro, con un accenno divertito alla “Napoli-Palermo”
che è stato il suo modo di aggirare la parola ponte, rivelando dunque
il suo stesso scetticismo. Insomma, non ci crede neppure lui che sogna
un ponte ma non lo chiama ponte. Sa che in Italia ponte è ormai sinonimo
di megalomania e di impotenza, la degradazione di un suono bellissimo
che rimanda a Dio perché Pontifex è l’uomo che fa ponti e non esiste una
riva che non possa essere raggiunta dal ponte, non esiste un vuoto che
il ponte non riesca a beffare.
E invece in Italia il ponte è
propaganda, polvere di stelle, petardi elettorali, squilli di fanfara.
Ed è così dal 1969. Il ponte, che è stato il vecchio sogno della
sinistra meridionalista che coinvolse i grandi ingegneri (e grandi
italiani) dell’epoca, da Nervi a Musmeci, da Montuori a De Miranda, è
stato via via “venduto” dalla Dc, dal Psi, timidamente dal governo
Prodi, sfacciatamente da Berlusconi che lo trasformò in una delle sue
tante trovate, un’impresa ma solo nella dimensione virtuale e mediatica,
la dimensione dell’inesistenza. Persino Mario Monti, che con tutta
evidenza non aveva né il tempo né la forza di realizzare il ponte,
furbescamente ordinò una verifica di mercato.
E ogni volta era
come se davvero fossero stati avviati i lavori, con le cannonate delle
inaugurazioni, con la pubblicazione di pregevoli componimenti d’addio
alla separatezza siciliana. Anche ieri Renzi ha evocato “una Sicilia più
vicina e raggiungibile” e ha immaginato di “togliere la Calabria dal
suo isolamento”. Ma la verità è che in Italia i ponti si spacciano, sono
droga elettorale mentre in tutto il mondo si costruiscono e proprio
quando sono opere di grande ingegneria, anche finanziaria, diventano
simboli della modernità e del progresso come il tunnel sotto la Manica
che collega Parigi e Londra con due ore e venti di treno ed è resistente
alla peggiore Brexit, malgrado i bilanci siano ancora in rosso.
Con
una grossolana battuta che ha rivolto all’amministratore delegato della
Salini- Impregilo Pietro Salini — «si possono creare centomila posti di
lavoro» — Renzi ha dunque riaperto l’interminabile, stucchevole
discussione tra i favorevoli e i contrari, il tormentone ideologico che
ha accompagnato almeno quattro generazioni di italiani sullo Stretto
necessario e lo Stretto indispensabile con capovolgimenti
destra/sinistra che nemmeno il federalismo, le tasse e il binomio
legge-ordine che, saltando da Scilla a Cariddi, è diventato legalità e
decoro.
E sembra quasi un autogol visto che nulla fa imprecare gli
italiani più del ponte e non perché davvero siamo un popolo affezionato
ai traghetti, “uora uora arrivau u ferry boat”, che sono sottosviluppo e
ferraglia, la condanna all’antropologia di Ferribotte, il siciliano di
Monicelli, piccolo, nero, la coppola e i baffetti, un “solito ignoto”
che gira con una bellissima sorella con gli “occhi ladri”, Claudia
Cardinale, alla quale ogni tanto dice: «Componiti, Concetta». Il
traghetto (si chiama Caronte) è l’arcaismo dello Stretto che è la
scorciatoia che i mari e gli oceani hanno inventato per ridurre i tempi
dell’incontro. Dovunque l’uomo ne approfitta per unire e accelerare
scavando canali come a Panama e a Suez, e costruendo ponti, in Giappone e
in Danimarca, sul Baltico e sul Bosforo, nelle città e nelle campagne
della Cina, dove servono e dove non servono, e anche tra due denti, tra
due festività, o solo per ballare — come canta Lucio Dalla — su una
tavola tra due montagne.
Solo in Italia la politica più fanfarona
del mondo è riuscita a far trasmigrare il ponte dall’ingegneria anche
finanziaria alla comicità. Il ponte sullo Stretto è infatti un topos
della risata amara come il Sarchiapone, la Supercazzola, il Manganello
di Tafazzi e l’ombrello di Altan. Esiste dunque quello di Cetto
Laqualunque: «Costruiremo un ponte di pilu, otto corsie di pilu e una di
peluche ». Esistono il ponte di Fiorello e quello di Ficarra e Picone
che «ai tempi di Garibaldi hanno posto la prima pietra». Strepitoso è
quello di Ciprì e Maresco costruito in un solo minuto dall’ingegnere
Gaetano Burgio, «il progettista più veloce del mondo ». C’è al contrario
il progettista più lento del mondo, l’ingegner Cane della Gialappa’s,
in cravatta, penne nel taschino e occhiali col cerotto. Comodissimo,
come abbiamo visto, è il ponte-canzone di Checco Zalone: «Tengo na
fimmina a Racalmuto, ca ce fazzu u maritu cunnuto./ Facimu stu ponti!».