Repubblica 28.9.16
La mania dei piccoli e il futuro dei balcani
di Lucio Caracciolo
BALCANI:
un marchio, molto più che uno spazio geografico. Più noto
nell’Ottocento come “Turchia d’Europa”. Ribattezzato nel 1907 “Europa
selvaggia” nel saggio del giornalista Harry de Windt, perché a suo
parere “questo termine descrive accuratamente i paesi selvaggi e
fuorilegge tra l’Adriatico e il Mar Nero”. Un paio di definizioni
bastano a capire perché di queste terre contestate noi altri europei
tendiamo a dimenticarci. O a trattarle con sufficienza, finché non
riesplodono, come nel 1914 o nel 1991.
Oggi, quando gli stereotipi
negativi sono merce comune del “dibattito” in Europa, dire Balcani
evoca una nevrosi geopolitica. Quella per cui ogni gruppo
etnico-religioso o presunto tale pretende uno staterello per sé.
Trascorsi i tempi in cui erano spartiti fra grandi imperi, dissolto nel
sangue il mini-impero jugoslavo, i Balcani segnano per definizione il
trionfo della
Kleinstaaterei, la mania dei piccoli Stati eretta a
contromodello dai nazionalismi dell’Ottocento europeo. Divisi su quasi
tutto, gli estremisti balcanici — serbi, croati o albanesi, ortodossi,
cattolici o musulmani — condividono un motto: perché devo essere
minoranza nel tuo Stato se tu puoi esserlo nel mio?
Di questo
sabba spartitorio l’ultima esibizione, per ora virtuale, si è avuta il
25 settembre nella Repubblica Serba, entità solo formalmente unita
all’alquanto eterogenea Federazione croato-musulmana nel molto teorico
Stato di Bosnia ed Erzegovina. Qui il 99,8% dei votanti al referendum
sul mantenimento della Festa nazionale, fissata ogni 9 gennaio, si è
espresso con un roboante “sì”. Inteso quale viatico per la dichiarazione
d’indipendenza, possibile entro un paio d’anni attraverso un altro
referendum. Naturalmente Sarajevo nega ogni legittimità al plebiscito
voluto dal leader serbo locale, Milorad Dodik, che ha incassato
l’autorevole incoraggiamento di Putin. Nemmeno Belgrado ha apprezzato
l’iniziativa dei cugini di Bosnia, il cui separatismo è l’ennesimo
ostacolo verso l’improbabile ingresso della Serbia nell’Unione Europea —
sempre che questa non si balcanizzi prima.
La formalizzazione
della spaccatura della Bosnia ed Erzegovina — a infrangere il miracolo
negoziale di Dayton, con cui si sancì oltre vent’anni fa la fine del
massacro jugoslavo — riaprirebbe una crisi strategica nel cuore dei
Balcani occidentali. Uno sguardo all’area conferma che probabilmente nel
futuro prossimo le maggiori potenze, non solo ciò che resta di quelle
europee, dovranno occuparsi di come evitare il riesplodere della guerra
nelle marche sud-orientali del continente. O di fomentarlo, se lo
ritenessero conveniente.
Si consideri solo la guerra fredda fra
Serbia e Croazia, con la prima che contesta alla seconda la
riabilitazione del regime ustascia (quale novità!) e la seconda che si
impegna a intralciare lo pseudo-negoziato tra Belgrado e Bruxelles.
Oppure si osservi la permanente tensione fra kosovari di etnia albanese e
i pochi “concittadini” serbi che non vogliono o non possono lasciare la
loro terra atavica. Infine, e soprattutto, si analizzi la penetrazione
jihadista concentrata soprattutto fra Bosnia e Kosovo, da cui sono
partiti in questi anni robusti contingenti di foreign fighters diretti
in Siria. E dove il terrorismo islamista ha potuto erigere
nell’indifferenza dell’Occidente santuari ben protetti e centri di
smistamento di ogni genere di traffici.
Saggezza vorrebbe che noi
europei ci impegnassimo da subito a prevenire l’esplosione della
dinamite accumulata nei Balcani. Storia ed esperienza recente tendono a
escluderlo.