martedì 27 settembre 2016

Repubblica 27.9.16
La lunga stagione delle anomalie
Il voto del 4 dicembre sarà una sorta di bilancio del “renzismo” Rispetto alla primavera 2014 molte cose sono cambiate per il premier
di Stefano Folli

Ora che la data più sofferta della storia repubblicana è stata finalmente annunciata, c’è da augurarsi che la campagna referendaria finisca meglio di come è cominciata. Finora hanno prevalso le anomalie. In primo luogo la stravaganza di una macchina della propaganda che si è messa in moto ai primi di giugno.
Quando si pensava - e si dichiarava - che il referendum si sarebbe svolto nella prima o seconda domenica di ottobre. Così l’estate è trascorsa fra le scaramucce dei comitati del Sì e del No, come se si dovesse votare a breve.
Invece, ora lo sappiamo, si andrà alle urne poco prima di Natale. Vale a dire al termine di sei mesi di campagna elettorale: un arco temporale eccessivo per un paese che deve fronteggiare altri e impellenti problemi. Rimane un retrogusto amaro in questa vicenda, la sensazione opaca di un “non detto”. In realtà la procedura è stata formalmente rispettata. Si sarebbe potuto votare in novembre, ma la scadenza si sarebbe intrecciata con la prima lettura della legge di stabilità. L’errore è stato creare all’inizio una serie di aspettative fondate sull’idea che il risultato del referendum era già acquisito e avrebbe coinciso con un plebiscito di tipo “gollista” per il premier.
Era il momento in cui da Palazzo Chigi si affermava che il presidente del Consiglio avrebbe lasciato la politica in caso di sconfitta, una “boutade” che nasceva da sicurezza di sé. Sembrava ineluttabile e scontata la valanga dei Sì. Viceversa, man mano che le settimane passavano, ci si è accorti di un elemento persino banale: in una stagione di stagnazione economica, con la “crescita zero” e un disagio sociale diffuso, è pressoché impossibile che un leader goda di una tale popolarità personale da non rischiare qualche inciampo elettorale. Del resto, le amministrative di primavera avevano dato segnali molto precisi al riguardo.
Man mano che Renzi prendeva atto di questa verità, la spinta verso il plebiscito si attenuava fino a scomparire. Il premier, fatto raro, ammetteva l’errore: «Ho sbagliato a personalizzare il referendum ». Tuttavia l’impronta iniziale è rimasta, come è inevitabile. Il 4 dicembre un gran numero di italiani andrà a votare non sul merito della riforma - che solo una piccola minoranza ha compreso - quanto sul governo, anzi sul presidente del Consiglio. Sarà una sorta di bilancio del “renzismo” e della sua capacità di innovare le istituzioni, l’economia, il rapporto fra il cittadino e lo Stato.
E qui è la vera incognita. Renzi ha sempre agito come se il tempo si fosse cristallizzato alla primavera del 2014, nei giorni del 41 per cento raccolto alle europee. Ma da allora troppe cose sono cambiate e la credibilità del giovane premier si è consumata nella fatica del governo quotidiano. Oggi anche il gioco del “rottamatore”, cioè del nuovo che si contrappone al vecchio, non è più riproponibile tale e quale, nella speranza di replicare il successo del ‘14. Per certi aspetti, anzi, il premier rischia di essere percepito come parte del sistema o di un “establishment” contro cui si era scagliato gli esordi. Il che toglie forza al tema conduttore della campagna elettorale: «Non ci sarà un’altra occasione» (per la riforma delle istituzioni). Sarà la bandiera renziana nei prossimi due mesi e mezzo, in un crescendo drammatico che inevitabilmente farà rientrare dalla finestra la tendenza a personalizzare il voto che era uscita dalla porta.
Per adesso i sondaggi fotografano una situazione di incertezza, con il No tutt’altro che battuto in partenza. I dubbi dell’opinione pubblica hanno a che vedere, come si è detto, con la fragilità del quadro economico e sociale, nonché con la crescita - non solo in Italia - di movimenti anti-sistema per i quali il “no” è quasi ideologico (tanto da rendere sempre più difficile il governo delle democrazie). Rispetto a tali tendenze il governo agisce in modo poco lineare. Sull’Europa, ad esempio, è passato in poche settimane dalla cerimonia di Ventotene al “me ne infischio” di Bratislava. L’idea è di recuperare voti referendari nelle fasce diffidenti verso l’Unione, ma è sempre pericoloso trasmettere un messaggio contraddittorio. Senza volerlo, si rischia di fare il gioco dei veri populisti neo-nazionalisti.