Corriere 27.9.16
Una mossa per proteggere il governo e la finanziaria
di Massimo Franco
Probabilmente
ha ragione l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi, a
dire che non conta tanto la data del referendum istituzionale, ma il
risultato. La decisione di celebrarlo il 4 dicembre, presa ieri da
Palazzo Chigi stiracchiando al massimo i tempi, è destinata però a
stagnare a lungo come elemento polemico e arma del fronte del «No». Il
rinvio è stato visto come la conferma di un Matteo Renzi in grave
difficoltà, spaventato da una consultazione che a giugno pensava di
vincere a man bassa, e che adesso si presenta più incerta.
C’è
senz’altro anche questo aspetto. La ragione principale di una data così
lontana, tuttavia, è la legge di Stabilità. Il timore è che, in caso di
bocciatura delle riforme di Renzi, si aprano dinamiche incontrollabili.
Arrivare all’inizio di dicembre, invece, dovrebbe garantire
l’approvazione delle misure economico-finanziarie almeno alla Camera; e
gestire il passaggio definitivo della legge senza scossoni che avrebbero
pessimi riflessi anche internazionali. Ma la campagna si preannuncia
virulenta. Renzi la aprirà il 29 settembre nella sua Firenze.
E
«dovrà essere chiaro», scrive riferito al M5S, «che con il loro dire no a
tutto l’Italia non ripartirà mai». «Chi vuole cambiare, ci dia una
mano. Dandoci del tempo, chiamando un po’ di amici, facendo il
volontario sulla rete o tra la gente. Oppure costituendo un comitato»,
lancia il suo appello Renzi. L’avversario-principe è Beppe Grillo,
tornato alla guida del movimento. E in filigrana quei settori del Pd che
contestano sia il contenuto della riforma costituzionale, sia il modo
in cui Renzi la propone.
Il M5S accusa il premier di avere fissato
il 4 dicembre senza consultare le opposizioni. E il centrodestra
sentenzia sbrigativamente che «ora si sa che il 4 dicembre finisce il
governo». In realtà, i sondaggi danno in vantaggio i «no» ma rimarcano
anche un’alta percentuale di astensioni. E comunque, non è affatto
scontato che in caso di sconfitta referendaria il presidente del
Consiglio rassegni le dimissioni; tanto meno che il capo dello Stato,
Sergio Mattarella, le accetti.
Con una punta di veleno Massimo
D’Alema, leader del Pd di minoranza, prevede che Renzi non se ne andrà
comunque. Lo prevede solo ridimensionato e meno arrogante. Su questo
sfondo, sarà difficile privilegiare i «contenuti» referendari evocati
per esorcizzare lo scontro. Lo scontro è nei fatti, e tutto lascia
pensare che si inasprirà. C’è solo da sperare che i toni ultimativi, da
Italia sull’orlo del baratro, non diventino così martellanti da far
pensare che esista davvero un simile pericolo. Il 4 dicembre non può
essere paragonato a un’altra Brexit.