Repubblica 26.9.16
Il primo duello Clinton-Trump così la tv sceglie il presidente
Da Kennedy-Nixon alla sfida Obama-Romney: in America il dibattito tra i candidati è un passaggio cruciale
E stanotte i due avversari si scontreranno davanti a 100 milioni di spettatori
di Evan Cornog
Negli
anni Ottanta i faccia a faccia avevano a che vedere con la capacità di
evitare gaffe, più che con le questioni in ballo Nell’epoca dei social
media, minimi svarioni possono diventare virali: nel 2012 una frase
sulle donne costò cara a Romney
STASERA, quando Hillary
Clinton e Donald Trump saliranno sul palco dell’Hofstra University di
New York per il loro dibattito, porteranno avanti una tradizione della
politica americana per le elezioni del presidente che risale all’ormai
leggendario primo dibattito del 1960 tra John Kennedy e Richard Nixon,
tradizione che a sua volta si regge su un’usanza ancora più antica e
radicata nella storia americana.
Ragionare in pubblico di
questioni di interesse nazionale è infatti una tradizione dalle origini
antichissime, risalente ad Atene con Pericle e a Roma con Cicerone,
arrivata fino ai nostri giorni attraverso innumerevoli assemblee e
parlamenti. Negli Stati Uniti questi dibattiti (sia di persona, sia
sulla stampa) furono essenziali ai fini della decisione presa dai coloni
americani di dichiarare la loro indipendenza, ed ebbero un ruolo
cruciale nella stesura e nella ratifica della Costituzione e della Carta
dei diritti.
Attenzione duratura e coinvolgimento simile al
riguardo di questioni assai importanti distinsero i sette dibattiti che
si svolsero nel 1858 tra Lincoln e Douglas: quella serie di incontri,
vera pietra miliare, ebbe luogo nell’ambito della campagna elettorale
per un seggio al Senato degli Stati Uniti in Illinois tra Abraham
Lincoln, il candidato repubblicano, e Stephen A. Douglas, il candidato
democratico. All’epoca l’argomento più scottante era quello della
schiavitù, e grandi folle si presentarono nelle piccole città
dell’Illinois per assistere ai dibattiti, poi riportati scrupolosamente
sulle pagine dei giornali, e per fare il tifo. Sebbene si trattasse di
una campagna elettorale statale e non nazionale, le questioni dibattute
furono per la maggior parte sotto la lente di ingrandimento dell’intero
Paese, ed entrambi i politici furono ritenuti possibili candidati dei
rispettivi partiti per le imminenti elezioni del 1860 (come poi
effettivamente avvenne).
Se oggi si leggono i dibattiti tra
Lincoln e Douglas quasi ci si meraviglia della profondità con la quale
furono scandagliati i vari argomenti e dell’energia intellettuale di cui
entrambi i candidati seppero dare prova. A quei tempi il pubblico era
abituato a seguire anche per ore le prediche in chiesa e i discorsi
della vita politica. In mancanza dell’intrattenimento offerto oggi dalle
moderne distrazioni di massa, all’epoca la gente seguiva seri dibattiti
politici quasi fossero una forma di avvincente intrattenimento. E, in
un’era anteriore agli incontri sportivi tra professionisti, il pubblico
si entusiasmava e tifava per i candidati con passione, come farebbe oggi
qualsiasi tifoso di calcio.
A distanza di un secolo da Lincoln e
Douglas, Kennedy e Nixon si affrontarono nel primo dibattito
presidenziale nella storia americana. Nel corso di quattro incontri
successivi si dette grande attenzione a questioni di importanza
nazionale e internazionale. I candidati si fronteggiarono nell’arena
televisiva, mezzo di informazione che nell’America degli anni Cinquanta
si era diffuso enormemente. In un primo tempo Kennedy dimostrò di
comprendere meglio di Nixon quella nuova arena: nel loro primo
dibattito, Kennedy (che aveva scelto di sottoporsi al trucco prima di
comparire in televisione) apparve sullo schermo abbronzato e sicuro di
sé, mentre Nixon (che si era rifiutato di fare altrettanto) apparve
giallastro, sudaticcio e a disagio. Dal canto loro, gli elettori parvero
prestare maggiore attenzione proprio all’immagine dei candidati
rispetto a quello che dissero. Nixon, lesto a imparare quella lezione,
nei dibattiti successivi scelse di farsi aiutare dai truccatori.
La
serie seguente di faccia-a-faccia tra candidati alla presidenza fu nel
1976, tra il presidente Gerald Ford e il suo sfidante democratico Jimmy
Carter. Nel secondo dibattito di quell’anno, Ford disse: «Non vi è
egemonia sovietica in Europa orientale». Dopo il dibattito, Ford rifiutò
di correggersi per una settimana intera e la copertura della faccenda
da parte della stampa contribuì a trasformare quell’incontro — che dai
sondaggi risultava essere stato una vittoria di stretta misura per Ford —
in una vittoria poderosa per Carter. Se nel 1960 si era affermata
l’importanza dell’immagine e delle apparenze, nel 1976 si proclamò così
il pericolo delle gaffe.
L’importante lezione che si apprese per
ciò che concerne la tattica nei dibattiti e il valore della battuta
tagliente a sorpresa ma pre-pianificata la offrì Ronald Reagan nel 1980.
A Hollywood Reagan non era mai stato l’attore migliore, ma divenne un
protagonista di successo, con un bell’aspetto e quella tranquillità
davanti alla cinepresa che lo avevano aiutato nella prima carriera
intrapresa nel cinema e per la televisione e che poi gli spianarono la
strada per la sua seconda carriera in politica. Nell’unico dibattito
della corsa alla presidenza del 1980, chiese agli elettori americani:
«State meglio oggi rispetto a quattro anni fa?». Per il pubblico
televisivo, afflitto dalla stagnazione economica e dall’inflazione
altissima, la risposta corale fu «no». E Reagan trionfò.
Nella
corsa elettorale del 1984, la prestazione di Reagan durante il primo
dibattito contro il democratico Walter Mondale era stata spaventosa, a
tal punto sconclusionata e farneticante che perfino il Wall Street
Journal, quotidiano ostinatamente conservatore, pubblicò un articolo nel
quale si chiedeva se Reagan avesse ancora le facoltà mentali per essere
un valido presidente. Quando nel secondo dibattito del 1984 il
moderatore sollevò la questione, Reagan aveva la replica pronta e disse:
«Non intendo sfruttare, per fini politici, la giovane età e
l’inesperienza del mio avversario». Il vecchio attore pronunciò quella
battuta magnificamente, e con grande abilità allontanò da sé questo tipo
di dubbi.
Negli anni Ottanta, le aspettative ormai erano ben
definite: i dibattiti avevano a che vedere con l’aspetto dei candidati e
con la loro abilità nell’evitare le gaffe e nel sapere assestare
stoccate pungenti. Il concetto secondo cui nei dibattiti si dovevano
esaminare con attenzione le varie questioni in ballo è caduto nel
dimenticatoio. I dibattiti sono diventati un atto da funamboli, il cui
obbiettivo principale non era convincere col ragionamento bensì
affascinare con il proprio aspetto, evitando errori marchiani.
Nell’epoca
dei social media, svarioni anche minimi possono diventare virali in
poco tempo. Per esempio, nei dibattiti del 2012 il momento clou si
presentò nel secondo dibattito, che si svolse proprio all’Hofstra
University. Nel primo incontro Obama aveva dato una scarsa prestazione e
il candidato repubblicano Mitt Romney si è presentato al secondo molto
fiducioso nelle proprie possibilità. Tuttavia, rispondendo a una domanda
relati- va all’esigua rappresentanza femminile nella sua
amministrazione di governatore del Massachusetts, Romney millantò di
aver cercato in lungo e in largo rappresentanti femminili da designare,
aggiungendo di avere «interi faldoni pieni di donne» (quel che intendeva
dire era di averne consultati parecchi alla ricerca dei curricola
migliori). Quell’immagine assurda — diventata all’istante un meme in
rete — si trasformò nel marchio indelebile della sua campagna.
Stasera
Clinton e Trump inizieranno a scrivere un altro capitolo nella storia
dei dibattiti televisivi americani per l’elezione alla presidenza.
Clinton è, ovviamente, la prima donna a vincere la candidatura di uno
dei partiti più importanti degli Stati Uniti, mentre Trump è un politico
alle prime armi che ha ottenuto la candidatura del partito repubblicano
facendo a pezzi il regolamento tradizionale di come si fa campagna
elettorale. Mai prima d’ora due candidati alla poltrona più importante
della nazione erano risultati sgraditi in così ampia misura. Ognuno di
loro farà il possibile per evitare di dire corbellerie, e indubbiamente
avrà un assortimento intero di stoccate pronte da usare qualora se ne
presentasse l’occasione.
Clinton ha il fardello ulteriore di
essere una donna: si presterà scarsa importanza a ciò che indosserà
Trump, ma su di lei e su quello che lei indosserà si concentrerà
un’attenzione enorme. Oltre a ciò, Trump potrà essere ampolloso e
offensivo ed essere considerato “forte”, mentre una risolutezza anche
solo più attenuata da parte di Clinton rischierebbe di farla passare per
“stridula” o “malevola”. Su Trump grava tutto il peso di una comprovata
ignoranza al riguardo delle questioni di politica interna ed estera. Ma
in un’epoca nella quale si tiene in bassa considerazione la competenza e
internet consente a chiunque di accedere e usare “fatti” che
corrispondono alle proprie opinioni o ambizioni, le vere cantonate
basate sui fatti possono rivelarsi molto meno importanti di quanto
fossero ai tempi di Gerald Ford. Stasera, quindi, quella che con ogni
probabilità sarà l’audience televisiva più numerosa della storia (si
parla di 100 milioni di spettatori) a seguire un dibattito tra due
candidati, potrà rendersi conto se Trump riuscirà a placare i timori
secondo cui è un demagogo pericoloso e disinformato e se Clinton
riuscirà a sembrare una leader sincera ed esperta invece di un’arrivista
calcolatrice. L’aspetto più positivo della situazione è che l’abilità
nel prevalere in queste circostanze è, in quest’epoca di saturazione dei
media, uno degli elementi fondamentali della leadership. Anche se può
sembrare deprimente, se si riflette sui contributi dati da politici del
calibro di Abraham Lincoln, questa è la realtà. E faremmo bene ad
ammetterla.
(Traduzione di Anna Bissanti)