Repubblica 25.9.16
7 milioni vivono con i genitori
Quei 30enni di troppo a casa con mamma
di Alessandro Rosina
IN
LARGA parte dei Paesi europei la maggioranza dei giovani compie il
venticinquesimo compleanno sotto un tetto diverso da quello della
famiglia di origine. In Italia, invece, è ormai consuetudine trovarsi a
vivere ancora nella casa dei genitori al traguardo dei trent’anni:
secondo l’Istat sono quasi 7 milioni, il 31,8 per cento dei quali ha un
lavoro. Alla base di questa ampia e persistente differenza sta uno
stretto intreccio, difficilmente districabile, di fattori culturali e
strutturali.
PENSIAMO ad un figlio di venticinque anni che
annuncia ai genitori l’intenzione di andare a vivere per conto proprio.
Possiamo credere che molte madri italiane reagirebbero con dispiacere.
Si chiederebbero dove hanno sbagliato nel rapporto con il figlio, dato
che già così presto vuole andarsene. Metterebbero in discussione la
propria capacità di cucinare, di stirar bene le camicie, di creare un
contesto domestico accogliente. Tutto questo ancor più se il figlio è
unico e se la madre è casalinga.
Pensiamo invece ad un giovane
danese della stessa età, che però vive ancora con i genitori e non sta
progettando di andarsene. Anche qui molte madri e padri scandinavi si
metterebbero in discussione, ma per motivi opposti. Si chiederebbero
dove hanno mancato nel trasmettere al ragazzo la spinta a buttarsi nel
mondo, a conquistare i propri spazi oltre le mura domestiche, a cercare
la propria strada.
Più che l’autonomia in sé, il valore principale
che un genitore mediterraneo tende a trasmettere ai figli è quello
della solidarietà familiare intergenerazionale, ovvero l’importanza di
sostenersi reciprocamente di fronte alle asperità in tutte le fasi della
vita. Questo di per sé è positivo. In un contesto però di carenza di
adeguati strumenti di welfare attivo, di ridotte opportunità nel mercato
del lavoro, di bassa mobilità sociale e crescenti disuguaglianze, il
rischio è che nei genitori si rafforzi un atteggiamento iperprotettivo e
che i figli tendano a rimanere più a lungo immaturi.
La maggior
propensione culturale all’aiuto da parte della famiglia di origine e le
maggiori difficoltà oggettive all’uscita portano ad adottare una tattica
dilatoria. Detto in altre parole, il porto è molto più sicuro e
accogliente, rispetto agli altri Paesi, e il mare aperto è molto più
burrascoso e con un sistema di aiuto pubblico alle imbarcazioni in
difficoltà e di riposizionamento sulla rotta molto meno solido ed
efficace.
Anche dopo essersi risolti ad uscire in mare aperto,
molti giovani italiani si trovano a fare marcia indietro o comunque
tornano, in vari modi, ad affidarsi all’ammortizzatore sociale più
importante del nostro Paese: la famiglia di origine. Del resto, se
osserviamo la distribuzione della spesa sociale italiana risulta
evidente come per le voci che vanno a maggior beneficio delle
generazioni più anziane, come pensioni e salute pubblica, non spendiamo
meno degli altri Paesi, mentre siamo sensibilmente deficitari sul
sostegno attivo al reddito nel caso di disoccupazione giovanile, nelle
politiche della casa e contro l’esclusione sociale.
Che oltre ai
fattori culturali incidano sempre di più anche le condizioni oggettive
lo testimonia sia il fatto che — secondo i dati Istat — negli ultimi
quindici anni il numero di chi dichiara di vivere con i genitori “perché
sto bene così, conservo comunque la mia libertà” è diventato
minoritario rispetto a chi afferma di non avere un reddito adeguato e
continuativo, sia il sorpasso del Sud rispetto al Nord.
Ancora
alla fine del secolo scorso la geografia delle regioni italiane rispetto
al tasso di disoccupazione giovanile non corrispondeva a quella
dell’incidenza degli under 30 nella casa dei genitori, ora emerge invece
una forte corrispondenza. Nel Sud Italia, più che altrove, i giovani si
trovano alla fine degli studi davanti alla prospettiva di rimanere a
lungo a carico di mamma e papà o alla scelta di uscire, ma per andarsene
molto lontano, spesso oltre confine.
La questione culturale
quindi c’è: ha a che fare non solo con l’eccesso di protezione privata
dei singoli genitori verso i figli ma anche con la difficoltà collettiva
a riconoscere le nuove generazioni come il bene pubblico più importante
su cui investire per ampliare orizzonti presenti e futuri della
navigazione di tutto il Paese.