domenica 25 settembre 2016

Repubblica 25.9.16
Le nuove mappe del mondo che verrà
Nato a Kanpur, in india, nel 1977, Parag Khanna è esperto di geoeconomia e insegna all’università di Singapore.
è considerato dalla rivista “esquire” una delle cento persone più influenti del ventunesimo secolo.
il 29 settembre esce anche in italia il suo ultimo saggio, “Connectography”
di Federico Rampini

NEW YORK È IL LIBRO IDEALE DA LEGGERE DI RITORNO da un viaggio in Cina, com’è accaduto a me in occasione del G20 di Hangzhou. Mentre l’attenzione degli europei è dominata da guerre civili e flussi migratori, il presidente Xi Jinping sta cercando di emulare gli antichi romani: costruisce le premesse di un impero fatto di porti, strade, ponti, acquedotti, più tutto l’equivalente moderno che i romani non potevano immaginare. Lancia i “ganci” delle sue reti infrastrutturali lontanissimo, dalla Cina fino al nostro Mediterraneo. Il libro ideale per capire questo grandioso piano cinese, e tante altre cose, è questo
Connectography del giovane esperto di geoeconomia e geostrategia Parag Khanna. È una mappa delle connessioni che contano davvero, la nuova geografia che sostituisce le vecchie carte del pianeta. Di origine indiana, cresciuto tra America, Medio Oriente e Germania, Khanna è docente all’università statale di Singapore. Poiché riesce a viaggiare perfino più di me, questa intervista l’abbiamo condotta via Skype fra diversi continenti. La premessa di Khanna è che l’umanità costruirà più infrastrutture nei prossimi quarant’anni di quante ne abbia costruite negli ultimi quattromila. Le grandi reti di trasporto e comunicazione (anche virtuale) sono ormai delle realtà più importanti degli Stati nazione. Le catene della logistica sono talmente complesse, ramificate e diversificate, che su ogni prodotto andrebbe messa l’etichetta “Made in Everywhere”, cioè fabbricato dappertutto. Un possibile modello del nostro futuro è Dubai, un luogo creato da una visione del tutto a-storica, a-geografica, ovviamente popolato da apolidi.
Il suo saggio è quasi una provocazione, per diversi motivi. Comincerei da questo: per le giovani generazioni la parola “connessione” evoca subito il mondo digitale, la Rete, le app sugli smartphone. Lei invece ci riporta all’importanza delle connessioni fisiche, fatte di acciaio, cemento armato, tubi di oleodotti… «Certo, per i più i giovani il concetto di connettersi è seguito automaticamente da “online”. Ma neanche loro devono dimenticare che le infrastrutture di trasporto dei beni, delle persone, dell’energia, hanno preceduto il digitale di alcuni secoli. E perfino la rete non esisterebbe senza una dimensione fisica, che richiede immensi investimenti, per esempio le reti a fibre ottiche o i ripetitori wi-fi».
Lei si occupa molto di un fenomeno della connettività globale che sono le migrazioni, con particolare attenzione a quella che secondo la sua analisi ne sarà la causa più dirompente: il cambiamento climatico. Oggi in primo piano per noi ci sono i profughi dalla Siria, domani prevarranno coloro che fuggono da cataclismi naturali?
«La conclusione è scomoda ma ineluttabile. Se osserviamo le mappe della densità di popolazione e dell’urbanizzazione, abbiamo forti concentrazioni umane in zone costiere dove i livelli dei mari si alzano; mentre in altre parti del mondo avanzano siccità e desertificazione. Al tempo stesso il riscaldamento climatico rende fertili e accoglienti delle aree vicine all’Artico, dal Canada alla Russia. Tutto questo non è futurologia, sta succedendo mentre parliamo. Ed è una spinta irresistibile a emigrare dal Sud verso zone che un tempo erano fredde, e diventano di anno in anno sempre più abitabili».
La Cina investe risorse gigantesche (ha già stanziato sessanta miliardi) nel progetto One Belt One Road (una cintura, una strada): autostrade e ferrovie, oleodotti e porti, aeroporti e reti di distribuzione elettrica, dall’Asia centrale al Medio Oriente fino a casa nostra. Che visione c’è dietro?
«È la più grande iniziativa strategica del ventunesimo secolo. È anche una delle realizzazioni più concrete dei temi del mio libro. La connessione attraverso le grandi reti infrastrutturali è centrale. È perfino più importante del rafforzamento militare. La Cina è disposta a investire subito centinaia di miliardi nei paesi vicini, ed è la nazione che ha più paesi confinanti di ogni altra. Vuole liberarsi dal vincolo del passaggio delle merci e dell’energia attraverso lo Stretto di Malacca. Punta a raggiungere i suoi obiettivi strategici senza dover necessariamente inviare truppe all’estero. Rende i suoi vicini dipendenti attraverso la finanza. Il precursore è la Banca Asiatica per gli Investimenti in Infrastrutture (Aiib): i suoi progetti coincidono con le mappe che ho disegnato per i prossimi vent’anni».
Quella Banca è stata osteggiata dagli Stati Uniti, che hanno tentato — invano — di dissuadere i suoi alleati europei dall’aderirvi. Hanno sbagliato gli americani?
«Non c’è ragione di temere quella Banca voluta dai cinesi. Gli europei ormai commerciano con l’Asia quasi quanto lo fanno con gli Stati Uniti. L’Europa è parte di quella grande massa continentale che chiamiamo Eurasia, ha bisogno di espandere le sue connessioni a Oriente. Gli Stati Uniti hanno sbagliato, sì. Costruire infrastrutture è un bene pubblico, al servizio di tutti, perché opporsi? La Banca Asiatica per gli Investimenti in Infrastrutture è uno strumento di sviluppo, di modernizzazione, sarà per il ventunesimo secolo quello che la Banca Mondiale voleva essere per il ventesimo secolo».
Il suo saggio è controcorrente per un’altra ragione: viviamo in un’epoca dove soffiano impetuosi venti di protezionismo, anti-globalizzazione, ri-nazionalizzazione degli orizzonti politici. Da Brexit a Donald Trump, piacciono quei leader e quei movimenti che propongono di alzare il ponte levatoio, di isolarsi. E non è solo una moda politica, è un trend visibile nei dati dell’economia: il commercio internazionale rallenta, non è più dinamico come una volta, sembra che la globalizzazione sia entrata in una fase di stanchezza. Lei sceglie proprio questo momento per esaltare il ruolo delle connessioni globali.
«Non mi spaventa sostenere tesi controverse. Anzi, proprio perché tanti si oppongono ai benefici delle frontiere aperte e della globalizzazione, è il momento che qualcuno scenda in campo per farne una difesa argomentata. Il fatto che la crescita degli scambi internazionali stia decelerando non contraddice la mia tesi sull’importanza delle connessioni. Circolano meno navi porta-container, ma la connessione attraverso smartphone tra il Canada e il Congo è più facile che mai. Nove miliardi di abitanti del pianeta sono più collegati che mai, e tutti gli altri vorrebbero esserlo: questo dato non viene intaccato dai cicli dell’economia. Ci sono opposizioni forti contro il trattato di libero scambio tra Stati Uniti e Unione europea, il Ttip, ma questo non significa per forza che vinceranno. Il commercio fra le due sponde dell’Atlantico, che vale mille miliardi di dollari all’anno, continuerà anche se Donald Trump vince le elezioni. Google continuerà a investire nella trasmissione di dati. Io parlo della realtà. A costo di sfidare i populismi del momento. Brexit ha vinto ma continuo a pensare che chi ha votato per l’uscita del Regno Unito abbia avuto torto. Sull’immigrazione ho il massimo rispetto per le resistenze europee, capisco che ci vuole tempo per adattarsi ai flussi di stranieri. Ma se come nazione hai un tasso di fertilità basso, l’alternativa è secca: o riesci ad assimilare gli stranieri, oppure muori».