domenica 25 settembre 2016

Corriere La Lettura 25.9.16
Oltre l’antropocentrismo
De Waal: uomini e animali, stessa mente
Lo studioso, ospite a Torino Spiritualità, invita ad «allontanarci dall’ingenuo tentativo di trovare ciò che ci distingue»«Non dico che occorra smettere di mangiare carne ma dobbiamo pensare con più attenzione alla vita degli esseri di cui ci nutriamo»
intervista di Leonardo Caffo

Frans de Waal è probabilmente la più grande autorità vivente nel campo dell’etologia. Il suo libro più recente, Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? (Raffaello Cortina), è un manifesto contro l’antropocentrismo cognitivo: l’idea che ogni scoperta sulle altre forme di vita animali debba essere paragonata alle nostre analoghe capacità (ignorando, de facto , tutte le competenze animali che non ci appartengono e che impediscono una comparazione). Ospite di Torino Spiritualità, de Waal è convinto che capire gli (altri) animali sia necessario anche per conoscere meglio che tipo di animale sia Homo Sapiens.
Nel libro lei sostiene che per mettere in crisi l’antropocentrismo sia necessario lasciare agli animali la possibilità di esprimersi secondo i loro comportamenti naturali. Di che tipo di antropocentrismo parliamo?
«L’antropocentrismo è l’atteggiamento di chi giudica il mondo in base a come noi lo approcciamo e, di conseguenza, orientato a giudicare gli altri animali rispetto a noi. Dunque siamo davanti a un doppio movimento: gli esseri umani come centro e gli esseri umani come pietra di paragone. Così, per esempio, siamo impressionati se gli animali utilizzano strumenti perché utilizziamo gli stessi strumenti anche noi. Gli scienziati a volte cercano di descrivere l’uso degli strumenti da parte degli animali come “semplice” rispetto a quello degli esseri umani o magari catalogano tutto ciò come “istintivo”. In realtà sappiamo che quest’utilizzo può essere complesso come il nostro: soggetto dunque alla comprensione di causa-effetto, un insieme di intuizione e lungimiranza. Un esempio: sottoponiamo Liza, uno scimpanzé femmina, a un esercizio con delle arachidi. Le diamo un tubo di plastica verticale con una nocciolina sul fondo: naturalmente non può prenderla con le dita. Che cosa ha fatto allora Liza? È andata verso l’abbeveratoio, soluzione che non avevamo previsto, e dopo essersi riempita la bocca ha iniziato a sputare acqua nel tubo: in questo modo ha ottenuto che le arachidi galleggiassero per poterle raggiungere con le dita. Altri scimpanzé hanno fatto pipì nel tubo! Che cos’è interessante in tutto ciò? Che questi scimpanzé sono stati addestrati in modo che le soluzioni fossero spontanee. Quanto sia difficile questo compito è diventato chiaro dalla psicologia comparativa: i test sui bambini mostrano che solo l’8% sotto i 4 anni riesce a fare quel che ha fatto Liza».
Ma perché siamo così impressionati dall’utilizzo di uno strumento? Perché non scegliamo, per esempio, di osservare l’ecolocalizzazione, cioé il sonar biologico di cui sono dotati alcuni mammiferi (per esempio i delfini e alcuni pipistrelli)?
«In realtà si tratta di un’abilità molto complessa: chiedete a un ingegnere del sistema di radar degli aerei. Una meraviglia della tecnologia. L’ecolocalizzazione permette ai pipistrelli di trovare piccoli insetti in aria nel buio quando i loro occhi sarebbero inutili. Si tratta di una grande abilità cognitiva ma noi esseri umani non la consideriamo: è ingenuo pensare che tutto ciò cada sotto la categoria di percezione e non di cognizione perché non abbiamo nulla nelle nostre dotazioni cognitive a cui paragonarla. Semplicemente: non siamo impressionati dalle abilità che noi non abbiamo. Risultato: continuiamo a giudicare gli animali su cose che siamo bravi a fare noi e non su cose che sono bravi a fare loro. Questo è ciò che io intendo per antropocentrismo».
A che tipo di mente pensiamo quando pensiamo alla «mente animale»?
«La cognizione è definibile come il trattamento delle informazioni a proprio vantaggio. Intelligenza significa dunque trovare soluzioni a problemi nuovi. Gli animali hanno ovviamente sia cognizione sia intelligenza: insieme costituiscono la mente. La mente aiuta a capire e affrontare il mondo che ci circonda. Non c’è alcuna differenza fondamentale tra la mente umana e quella animale: guardo la mente umana come una variazione della mente di cui sono dotati gli animali. Essa comprende la conoscenza del passato e del futuro, la consapevolezza di sé, la memoria, la percezione, l’acquisizione di informazioni dall’esperienza, e così via. L’orientamento al futuro è particolarmente interessante. Ci sono molti esperimenti su come i primati, ma anche gli uccelli, prevedano il futuro per prepararsi a esso. Nella foresta gli scimpanzé possono radunare per ore strumenti che poi utilizzeranno solo in seguito per raccogliere termiti o per razziare un alveare per il miele. L’idea filosofica che gli animali siano intrappolati nel presente è falsa. Pensano in avanti e anche indietro riguardo eventi specifici».
Che cosa pensa degli esperimenti che per accrescere la nostra conoscenza degli animali li rinchiudono in laboratori che impediscono lo sviluppo di una vita degna?
«Dipende da che tipo di laboratorio. Se i primati vengono tenuti in gabbie anguste in solitudine o se gli esperimenti diventano dolorosi o dannosi, beh… io ho dei problemi morali con tutto ciò. Questo è giustificabile, a mio avviso, solo se la ricerca si propone di risolvere problemi urgenti come il cancro, Ebola e così via, mai per il tipo di problemi cognitivi generali. Il tipo di studi cognitivi che facciamo non richiede che si faccia loro del male, non sono molto diversi da una ricerca effettuata su volontari umani. Idealmente, la ricerca sulle scimmie dovrebbe essere reciprocamente vantaggiosa e divertente».
Dopo decenni a studiare la mente animale e i comportamenti delle altre specie, che cosa pensa dell’animalismo?
«L’atteggiamento nei confronti degli animali sta cambiando rapidamente: la mia ricerca, ma anche la mia attività di scrittura, stanno contribuendo a questo cambiamento. Abbiamo sottovalutato l’intelligenza degli animali. Ora abbiamo un movimento contro l’uso degli scimpanzé nella ricerca biomedica: io sono un membro del consiglio di ChimpHaven, un santuario che riceve molti scimpanzé ex-laboratorio e li libera in grandi isole boscose della Louisiana. Abbiamo un movimento per liberare orche, uno contro gli elefanti nei circhi, e così via. Ma il problema più grande, molto più grande, è l’allevamento industriale. Miliardi di animali che non vediamo mai. La nostra maggiore comprensione del comportamento animale sta contribuendo a un cambiamento dell’atteggiamento generale. Non dico che la gente dovrebbe smettere di mangiare carne, ma abbiamo comunque bisogno di pensare con più attenzione alla vita degli animali che mangiamo. Dobbiamo, questa è la mia opinione, trattarli meglio».
In che modo lo studio ravvicinato degli animali può servire anche per comprendere qualcosa sulla nostra specie, sul nostro futuro e sulle nostre speranze? E che cosa ha imparato su se stesso osservando gli altri animali?
«Gli animal studies mostrano quanto di loro è in noi e quanto di noi è in loro. Il cervello umano è più grande e complesso ma non è strutturalmente diverso rispetto al cervello degli altri primati. Anche i ratti sono spesso utilizzati per modellare le scoperte delle neuroscienze umane. Essenzialmente tutti i cervelli di mammiferi funzionano allo stesso modo. Non vi è alcuna intelligenza universale o una qualche legge di apprendimento universale: diciamo che ogni specie ha le proprie esigenze e specializzazioni. Quello che abbiamo imparato negli ultimi 25 anni, con la rivoluzione cognitiva degli studi animali, è che la mente umana, che spesso si tenta di spiegare come fenomeno isolato, è parte di un quadro molto più grande. Dobbiamo allontanarci dall’ingenuo tentativo di trovare ciò che ci distingue e smetterla di arrabbiarci se non siamo i più intelligenti. Sono più intelligente di un polipo? No, non lo so: faccio solo cose molto diverse, perché diverse sono le nostre esigenze. In soldoni: è come paragonare mele e arance».