domenica 25 settembre 2016

Corriere La Lettura 25.9.16
La «grand strategy» di Pechino una ferrovia conquisterà il mondo
Nel 2012 i container che viaggiarono su rotaia tra le due estremità del mega continente euroasiatico furono 2.500. Nel 2020 saranno 7,5 milioni. Evidente che qui si sta giocando una gigantesca partita economica e politica
di Parag Khanna

L’Eurasia ospita due terzi della popolazione e dell’economia mondiali. Inevitabilmente questa proporzione non potrà che crescere nei prossimi anni, quando il continente eurasiatico si sarà definitivamente trasformato in un megacontinente percorso, da un capo all’altro, da colossali infrastrutture destinate a movimentare merci e persone. Le ferrovie ad alta velocità di costruzione cinese già stanno riducendo da mesi a giorni i tempi di viaggio dalla Cina all’Europa, lanciando una sfida importante alla leadership marittima dei trasporti: se nel 2012 i container che hanno viaggiato su rotaia fra le due estremità della grande distesa eurasiatica sono stati circa 2.500, il loro numero, secondo le stime, dovrebbe arrivare ai sette milioni e mezzo nel 2020.
Già oggi la ferrovia Transeurasiatica parte dalla ciclopica Chongqing (oltre 32 milioni di abitanti nel 2015), nella Cina centromeridionale, e arriva a Duisburg, Germania, attraversando Kazakistan, Russia, Bielorussia e Polonia. Russi e cinesi stanno investendo decine di miliardi di dollari nel potenziamento dei collegamenti ferroviari diretti, a partire dalla Transiberiana. Quasi otto secoli fa, nel 1241, i cavalieri mongoli di Batu Khan si riversarono nell’Europa centrale servendosi di staffette a cavallo e bandiere di segnalazione: non c’è bisogno di tanti sforzi per immaginare cosa può fare l’economia cinese nell’era delle ferrovie ad alta velocità.
Per anni gli analisti occidentali hanno coltivato — meglio, finto di coltivare — l’illusione che l’ingresso della Repubblica Popolare nella Banca Mondiale, nel Fondo monetario internazionale, nella World Trade Organization e in altre istituzioni fosse un sintomo della volontà di Pechino di giocare secondo le regole dell’Occidente. In realtà era una mossa illusionistica: la Cina ha creato, nel frattempo, istituzioni separate che rispondono solo alle sue priorità. L’esempio più significativo di questa strategia sta in quel grande soggetto finanziario che è la Asian Infrastructure Investment Bank (Banca Asiatica di Investimento per le Infrastrutture), o Aiib, creata a Pechino nel 2014.
La Aiib porta in dote un capitale dieci volte più grande di quello iniettato in Europa dal Piano Marshall dopo la Seconda guerra mondiale. La sua mission è il finanziamento di infrastrutture in Asia, come strade, ferrovie, pipeline , trasmissioni elettriche e tutti gli altri asset di connettività capaci di favorire l’espansione a ovest del Celeste Impero. Del resto, è il momento giusto: gli Stati dell’Asia meridionale e le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale che confinano con la Cina hanno tutti un disperato bisogno di nuove infrastrutture, e i cinesi hanno un credito praticamente infinito da destinare a operazioni di questo tipo. Non c’è bisogno di aggiungere che il cemento, l’acciaio e la manodopera che quel credito andrà a procurare saranno tutti rigorosamente Made in China.
La Asian Investment Bank può essere vista come la risposta cinese al gap di investimenti infrastrutturali, dell’ordine delle migliaia di miliardi di dollari, che ancora penalizza l’Asia. Sto parlando di infrastrutture come strumento di grand strategy , come strumento di politica estera e come strumento di costruzione imperiale e di egemonia, con tutte le relative dinamiche competitive comprese in questi processi. Ma in primo luogo la Asian Investment Bank è un progetto cinese che si sta multilateralizzando, allo stesso modo in cui, a suo tempo, la Nato fu un progetto americano che diventò multilaterale. È per questo che, nel mio Connectography , definisco la Aiib «la nuova Nato dell’Oriente».
Quello che fa la differenza rispetto alla Nato è che la Aiib non è soltanto un competitor delle istituzioni occidentali, ma in molti casi opera in coincidenza con esse, per la molteplice appartenenza di alcuni fra i suoi membri. All’epoca dei blocchi sarebbe stato inconcepibile che un Paese membro del Patto di Varsavia facesse parte anche della Nato. Oggi invece abbiamo alleati degli americani, come la Corea del Sud, l’Australia, il Canada e tutta l’Europa, che aderiscono alla Aiib — il che fa letteralmente impazzire Washington.
Ora, il punto che non dobbiamo dimenticare è che non viviamo più nel contesto rigido della Guerra Fredda, anche perché le infrastrutture stanno connettendo tutte le regioni che un tempo si trovavano su fronti opposti. Naturalmente questo non significa che le dinamiche competitive siano state superate. Una volta che un’infrastruttura è costruita si scatena la concorrenza per controllarla, con un processo per il quale uso la metafora del tiro alla fune. Infrastrutture come una pipeline , un’autostrada o un cablaggio internet assomigliano a una fune che viene tirata da una parte e dall’altra per impadronirsi della maggior parte di essa. Meglio, non è tanto l’infrastruttura fisica in sé a interessare, quanto il valore aggiunto che essa genera, in termini di ricchezza e attività economiche. Possiamo trovare un esempio di tutto questo nei gasdotti che attraversano l’Ucraina. Prima che la Russia invadesse di fatto una parte del Paese, era in corso un costante tiro alla fune tra Mosca e Kiev sulle rendite del transito, che vedeva coinvolti oligarchi e aziende di Stato russe e ucraine, persino aziende che univano oligarchi dei due Paesi, e gli stessi capi di Stato, intenti a corrompersi a vicenda. Credo che sia un esempio illuminante di quanto complessi e opachi siano questi processi.
Per tornare alla Asian Investment Bank, e più in generale alla strategia egemonica cinese, dobbiamo pensare a quanto sia riconosciuto in tutto il mondo il bisogno di stimolo fiscale, infrastrutture e creazione di lavoro: Fmi, Banca Mondiale, G20, praticamente non c’è nessuno che lo neghi. La Aiib sta pianificando enormi investimenti, si è già impegnata per 150 miliardi di dollari e ogni trimestre annuncia nuove iniziative. Si tratta di qualcosa di estremamente significativo.
Certo ci sono i lati negativi, che riguardano la scarsa trasparenza in ambiti come la governance e la supervisione dei progetti. Da un punto di vista esterno non è ancora chiaro come tutto questo si concretizzerà, ma questo non è un vero problema critico: anche molti progetti lanciati dalla Banca Mondiale finiscono nel nulla. Trasparenza, chiarezza e buona governance non bastano, da sole, a garantire che un progetto vedrà realmente la luce.
Non ho dubbi che i progetti della Aiib giungeranno a essere realizzati; il problema sta nel fatto che molte nazioni destinate a beneficiare di queste infrastrutture, ad esempio il Tagikistan, avranno problemi a gestirle. Mi spiego: infrastrutture di questo tipo, come strade e ferrovie, sono già state costruite negli anni passati, ma in assenza di formazione e supervisione adeguate il loro funzionamento può costituire un problema. In questi casi, ciò di cui si ha bisogno è un qualche modello di sviluppo di competenze locali, di trasferimento di conoscenze e di finanziamento di una continuità operativa, manageriale e sostenibile a livello finanziario.
La domanda che molti si pongono è se la Asian Investment Bank possa costituire una minaccia per istituzioni occidentali. La mia risposta è no. Come possiamo pensare di contrapporre l’investimento infrastrutturale e l’evoluzione dei Paesi in via di sviluppo? È questo il punto debole della Banca Mondiale, e delle istituzioni multilaterali in genere. Se i fautori di queste istituzioni sono contrari alla filosofia della Asian Investment Bank, allora debbono essere anche contrari all’idea di uno sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo.
La sola domanda che dovremmo porci è se la Aiib rappresenta o meno lo standard più alto della project finance . Probabilmente non esiste una risposta giusta. Quello che sappiamo è che questa istituzione ha più volte dichiarato di voler mantenere gli standard operativi più alti, e in effetti la maggior parte del suo staff proviene dalla Banca Asiatica di Sviluppo (Adb) e dalla Banca Mondiale. Ora, a nessuno verrebbe in mente di reclutare personale con decenni di esperienza nella realizzazione di progetti di alto livello semplicemente per sbarazzarsene quando è il caso. Dovremmo allora concentrarci su una cosa, una sola: l’esecuzione. Fare le cose nel modo migliore, che è ben diverso dallo starsene a Pechino, o a Washington, e semplicemente parlare. Questo è il primo punto.
Il secondo punto è che rischi politici, ostacoli e ripercussioni ci saranno sempre. Per prendere un esempio recente, il presidente dell’Uzbekistan Islam Karimov, leader a vita del Paese più popolato dell’Asia centrale, è ufficialmente deceduto il 2 settembre; il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, è prossimo a morire, e altri seguiranno. Eventi di questo tipo, ovviamente, non possono essere previsti quando si preparano progetti a lungo termine.
I Paesi di cui stiamo parlando avevano bisogno di questi investimenti in infrastrutture già vent’anni fa, e ne hanno ancora bisogno oggi. Non potevano sostenerli con le proprie forze all’epoca, e non possono farlo allo stato attuale. In questi vent’anni non è cambiato molto e questa è la ragione per la quale, in fin dei conti, la mia visione del mondo è orientata a un principio, la legge della domanda e dell’offerta. Luoghi come quelli che ho citato hanno ancora una domanda, e la Cina ha la relativa offerta. Sulla base di questa semplice equazione credo che si possa prevedere che i progetti in essere non potranno che avanzare.
E adesso veniamo agli Stati Uniti. Qual è il modo migliore per i policy maker americani di reagire a questo mutamento della mappa determinato dall’azione dell’Asian Investment Bank? La prima cosa che ha fatto Justin Trudeau, primo ministro canadese, una volta sbarcato a Pechino per il meeting del G20 è stata quella di annunciare l’ingresso del suo Paese nella Aiib. Il fatto che il Canada abbia fatto una mossa simile significa che anche gli Stati Uniti lo possono fare. Fossi nel presidente Usa farei subito marcia indietro e rinuncerei a cercare di convincere i miei alleati a evitare coinvolgimenti con la Asian Investment Bank. Al contrario, consiglierei di prendervi parte, dal momento che solo una volta che sei membro puoi sperare di influenzarne le politiche. Credo anche — Obama ne è a sua volta convinto — che sarebbe un grande risultato che la Cina aderisse al trattato della Trans Pacific Partnership (Tpp). Tutti i Paesi asiatici si stanno muovendo verso questi progetti, con o senza gli Stati Uniti. Semplicemente, dobbiamo accettarlo. Gli Stati Uniti devono essere parte del Tpp se vogliono influenzare le economie asiatiche, e devono diventare membri della Aiib se vogliono avere voce in capitolo sul modo in cui la Cina realizza i propri investimenti in infrastrutture in Eurasia. Ecco il primo obiettivo: entrare in gioco e vedere cosa succede. Gli Stati Uniti sono una potenza in Asia e una potenza nel Pacifico: sono un grande investitore, e quindi questa dovrebbe essere una priorità.
Inoltre, Washington dovrebbe essere in grado di scegliere i Paesi che, nei prossimi cinque anni, avranno la maggiore influenza in Asia centrale, nell’Estremo Oriente e nell’Asia sudorientale. La diplomazia americana, attualmente, non opera in questo modo: è concentrata sui Paesi nei quali gli Stati Uniti hanno una missione o una presenza specifica, come l’Afghanistan, ma non ha una policy regionale. A mio parere gli Stati Uniti dovrebbero sviluppare una policy regionale adeguata, capace di pensare l’interazione fra tutti questi Paesi e il futuro di questa regione. Sembrerebbe ovvio, ma gli Stati Uniti non hanno ancora fatto nulla di simile. Più di un’amministrazione, a Washington, non ha preso nemmeno in considerazione la cosa, e, se lo ha fatto, non lo ha certo fatto bene. Ogni grand strategy consiste fondamentalmente nell’avere una visione ampia e nel mettere in campo politiche in grado di concretizzarla: per adesso, anche questa visione è assente.
(traduzione di Franco Motta )