Repubblica 25.9.16
Renzi batte i pugni in Europa ma in Italia stia sereno
L’europeismo al quale anche lui è approdato non avanza anzi fa passi indietro
di Eugenio Scalfari
DAL
vertice europeo di Bratislava ad oggi è passata una decina di giorni
durante i quali si è consumata una rottura tra Renzi e l’Europa di
stampo franco-tedesco con vasto seguito dei Paesi che sentono l’egemonia
della Germania e vi si conformano.
Renzi è praticamente solo e
desidera esserlo. «Non voglio vivacchiare rispettando i comodi dell’asse
franco-tedesco. Vivacchiare per un anno, aspettando che Francia e
Germania abbiano risolto i loro problemi elettorali».
Il mondo
occidentale, Giappone compreso, è agitato da problemi interni e
internazionali estremamente complessi e preoccupanti che si intrecciano
tra loro. Tutto è sempre più sconnesso e l’Europa peggio degli altri.
Una Confederazione di 27 Paesi, ciascuno aggrappato alla propria
sovranità nazionale mentre dovrebbero rafforzare l’Europa almeno per
quanto riguarda la politica economica, quella delle migrazioni di massa e
quella estera e militare. Per un periodo è sembrato che i Paesi di
maggior rilievo e soprattutto i 19 che hanno adottato da diciotto anni
la moneta comune, si fossero orientati in questo senso ed avessero
capito che era necessario un cambiamento delle istituzioni europee. Ma
l’illusione è durata assai poco. Questa strada è stata abbandonata da
tutti, salvo che da Renzi e in tutt’altra misura ma con analoghi intenti
da Mario Draghi.
Che il nostro presidente del Consiglio abbia
attenuato e per certi aspetti abbandonato il proprio nazionalismo
nessuno se lo aspettava e invece è accaduto.
LA SUA conversione al
manifesto di Ventotene ha concluso una fase transitoria durante la
quale Renzi ha cercato di costruire una sua politica europeista ed un
proprio ruolo che allineasse l’Italia ai grandi dell’Europa. Del resto
siamo tra gli Stati fondatori, a cominciare dalla Comunità europea del
carbone e dell’acciaio, dai trattati di Roma del 1957, dalla nascita
dell’Unione europea, dall’adozione della moneta comune nel 1999 ed alla
redazione della Costituzione europea, firmata da Giscard d’Estaing e da
Giuliano Amato. Purtroppo però quella Costituzione fu bocciata dai
referendum indetti in Francia e in Olanda.
Questa per sommi capi è
stata la storia europeista italiana, portata avanti da personaggi come
Altiero Spinelli, De Gasperi, Guido Carli, Giuliano Amato, Prodi,
Ciampi, Napolitano, Draghi ed ora Renzi che batte il pugno sul tavolo
quando quell’europeismo al quale anche lui è approdato non riesce ad
avanzare, anzi fa preoccupanti passi indietro.
***
Molti
sostengono che battere i pugni è un pessimo metodo, tipico di Renzi in
tutte le occasioni in Italia e in Europa. Per quanto riguarda l’Italia
hanno ragione: siamo una democrazia parlamentare e il Parlamento
rappresenta il popolo sovrano, sia che abbia forme bicamerali o
monocamerali. In Europa è diverso: il Parlamento è formato da partiti
eletti dai singoli Paesi e non dal popolo nella sua cittadinanza
europea. La cittadinanza europea esiste a parole ma non è in una
Costituzione. Non esiste una Costituzione europea, sostituita da un
Trattato di Lisbona che si limita a stabilire alcuni principi
estremamente elastici. I partiti i cui rappresentanti occupano i seggi
parlamentari e le singole commissioni a Bruxelles e a Strasburgo
l’assemblea che si riunisce una volta al mese sono eletti dai singoli
Paesi e quindi non rappresentano il popolo sovrano europeo. Non lo
rappresentano perché, come abbiamo già detto, non esiste.
Le
conseguenze si vedono ad occhio nudo: 8 Paesi su 27 hanno monete proprie
e non quella comune. Il patto di Schengen che non prevede confini
intraeuropei è accettato soltanto da alcuni ma non da tutti. Non esiste
una forza armata europea e non una politica estera comune, non esiste un
presidente con poteri decisionali ma soltanto un presidente con poteri
procedurali, convoca i capi di Stato e di governo dei membri dell’Unione
che deliberano a maggioranza qualificata o il più delle volte con voto
unanime sicché basta un solo voto contrario per bloccare tutti.
Insomma
la Confederazione non ha fatto alcun passo avanti verso la Federazione.
Altiero Spinelli disse giustamente che ci sarebbe voluto molto tempo
per arrivare agli Stati Uniti d’Europa. In realtà passi avanti
sostanziali non sono stati fatti: Confederazione eravamo e tale siamo
rimasti, anzi abbiamo anche dovuto registrare qualche mese fa la Brexit
della Gran Bretagna. Assistiamo dovunque alla nascita di movimenti e
partiti populisti, xenofobi e antieuropei in quasi tutti i Paesi del
nostro continente.
Ecco perché la politica federalista di Renzi e i
suoi pugni sul tavolo delle decisioni meritano di esser apprezzati. Ma
queste considerazioni riguardano la politica del nostro presidente del
Consiglio e l’Europa. Anche lui però ha delicati problemi da risolvere
in Patria: economici, fiscali, politici. Si tratta di questioni non solo
difficili ma fondamentali perché se al prossimo referendum dovessero
vincere i “No” difficilmente potrebbe restare a Palazzo Chigi e quindi
non resterebbe neppure in Europa con le conseguenze che ne seguono.
Il
referendum costituzionale e la vigente legge elettorale sono due
problemi strettamente connessi, ne abbiamo più volte spiegato le ragioni
su queste pagine e quindi non staremo a ripeterle. Renzi fino a pochi
giorni fa l’aveva sempre negato ma finalmente l’ha ammesso e ha
interpellato il Parlamento, cioè il Senato dove non ha la maggioranza
assoluta che ha invece alla Camera, sul tipo di legge elettorale che le
varie formazioni politiche vorrebbero. Quando ognuno avrà detto la sua
anche lui farà una proposta sapendo comunque che a referendum avvenuto
anche la Corte costituzionale emetterà la sua sentenza sulla
costituzionalità della legge elettorale e lui dovrà tenerne conto.
Un
dato comunque è ormai assodato: una riforma elettorale ci sarà. Sarà
una leggera incipriata alle gote o una vera e propria operazione di
estetica facciale? Alcuni osservatori sostengono che Renzi non
abbandonerà mai il ballottaggio; altri invece che potrebbe anche
scegliere la proporzionale che è il criterio adottato dalla Corte
costituzionale quando abolì il Porcellum. C’è però una possibilità di
conservare il ballottaggio cambiandone tuttavia i connotati, finora una
proposta del genere non è venuta fuori. Mi permetto di suggerirla: si
instauri un sistema elettivo fondato esclusivamente in collegi
uninominali con ampio spazio territoriale. Il ballottaggio avverrà
collegio per collegio, dove i candidati decidono se andare al
ballottaggio da soli o contraendo alleanze che possono essere anche
diverse tra collegio e collegio. Il risultato finale emergerà dal totale
degli eletti, deputati singoli o appartenenti a movimenti e partiti.
Questo avverrà alla Camera, ammesso che il Senato sia stato abolito da
una vittoria dei “Sì” al referendum. Se invece vincessero i “No” il
Senato resterà quello che è, con la propria legge elettorale.
A me
sembra che queste ipotesi funzionino. Un progetto equivalente è quello
di non fare il ballottaggio nei collegi ma consentire ai candidati
eletti nei collegi senza alcun ballottaggio di contrarre alleanze prima
del ballottaggio finale. Più o meno questi due sistemi elettorali si
equivalgono politicamente.
Gli altri temi, oltre questo
elettorale, riguardano l’economia, la produttività e il fisco. Sono
importantissimi e strettamente interconnessi.
Qualche tempo fa
feci una proposta che aveva il pregio di risolvere tutti e tre questi
aspetti economici: il dimezzamento del cuneo fiscale per quanto riguarda
i contributi che imprenditori e lavoratori versano all’Inps. Non detti
però l’ammontare dell’intera operazione e gli effetti che essa potrebbe
esercitare sulla domanda, sulla produttività e sulla auspicabile
creazione di nuovi posti di lavoro. Questi dati li ho raccolti e perciò
possiamo ora tornare su questo problema.
Anzitutto il pagamento
dei contributi grava sui lavoratori per il 9,19 per cento e sui datori
di lavoro per il 23,81. È dunque l’impresa quella che sarebbe più
avvantaggiata e quindi più disponibile ad aumentare la produttività e a
creare nuovi posti di lavoro.
L’ammontare totale del cuneo fiscale
è all’incirca di 300 miliardi di euro annui, incassati dall’Inps che ne
ricava un attivo marginale. La mia proposta iniziale è stata quella di
ridurre il cuneo fiscale del 50 per cento e quindi a 150 miliardi di
euro. È evidente che l’Inps incassando una cifra così ridotta e dovendo
comunque farsi carico dei medesimi servizi, sopporterebbe una notevole
perdita che lo Stato dovrebbe fiscalizzare facendola pagare ai
contribuenti sulla base del reddito da essi dichiarato. Si tratta di
cifre molto rilevanti che però possono essere ulteriormente ridotte pur
conservando un effetto notevole sull’economia e la produttività. Una
riduzione comunque efficace potrebbe essere non del 50 per cento ma del
30, il che significa in cifre assolute tra gli 80 e i 90 miliardi che lo
Stato dovrebbe fiscalizzare.
Su quale reddito dovrebbe scaricarsi
questa fiscalizzazione? A mio parere su un reddito superiore a 120 mila
euro annui. Siffatti redditi riguardano ancora un numero rilevante di
contribuenti e quindi il peso della fiscalizzazione non è enorme ma
comunque notevole. Naturalmente si accresce man mano che il reddito
dichiarato dal contribuente aumenta. La sostanza dell’operazione per
certi risvolti richiama una sorta di imposta patrimoniale che attenua le
diseguaglianze e incita occupazione e consumi. Forse aumenterebbe il
numero dei “Sì” al prossimo referendum. Renzi aveva in mente di ridurre
di 3 punti il cuneo fiscale nel 2017. Ci pensi bene: 3 punti non
significano niente, 30 punti capovolgono nettamente e utilmente la
politica economica e sociale.