sabato 24 settembre 2016

Repubblica 24.9.16
L’artista è un combattente la sua sola arma è internet
Un’estetica al servizio della verità che passa dalla poesia alla prosa
di Achille Bonito Oliva

Indubbiamente Ai Weiwei è un combattente. Pronto allo scontro in nome della causa, la sua libertà e quella degli altri. Lo fa con le opere e col comportamento sociale. Usa l’arte come lente d’ingrandimento di tragedie umanitarie e soprusi civili. Vero e proprio inviato speciale nella realtà, l’artista cinese esplora numerose geografie il suo paese ed altri più lontani. Intercetta così drammi e catastrofi che vanno dal terremoto nel Sichuan del 2008 ai naufragi dei migranti nel Mediterraneo. Internet è lo strumento che gli permette ogni esplorazione e vagabondaggio, per produrre e sviluppare un’informazione al servizio della verità e della libertà di espressione. Ecco allora l’arte trova una sua funzione sociale e partecipa all’emancipazione dei popoli attraverso processi di conoscenza legati alla velocità del web. Così smaschera la catastrofe umanitaria del terremoto cinese e costringe le reticenti autorità locali e gli imprenditori corrotti ad assumersene le responsabilità. L’accanimento di questa ricerca va oltre l’etica della pura informazione e accede invece a una pietas più attinente al patos di un’arte che sceglie di passare dalla poesia alla prosa, da una poetica dell’io a una del noi. Evidente è il richiamo al ready made di Duchamp, alla scultura sociale di Beuys e all’empatia tecnologica di Warhol. Nello stesso tempo presente è il genius loci della sua estrazione orientale anche attraverso l’uso della porcellana, il legno pregiato ed altri materiali della tradizione cinese.
Semi di girasole è il titolo dell’opera presentata alla Tate Modern di Londra nel 2011, 15 milioni di semi in porcellana in memoria delle carestie al tempo di Mao che provocarono 3 milioni di morti. In tal modo la memoria di una tragedia si tramuta nella definizione di una forma a futura memoria. In Cina sembra contare il numero e non il singolo individuo e dunque la quantità dei semi riporta l’attenzione su una catastrofe rimossa dalla politica. Invece Ai Weiwei ci ricorda che l’arte è sempre inevitabilmente politica e coinvolge il corpo sociale come spettatore o attivo partecipe.
A Kassel, per Documenta 2007 nell’opera Fairtale, ha portato con sé 1001 compatrioti, e altrettante vecchie sedie cinesi, liberi di circolare nella città tedesca e farsi un’idea della gente locale interagendo con la popolazione e col mondo dell’arte. In tal modo Ai Weiwei ha promosso uno sconfinamento pacifico e un cortocircuito antropologico di popoli lontani tra loro, un’esperienza inedita per i 1001 invitati senza vincoli o pericoli censori. In tal modo l’arte svolge un’autentica funzione liberatoria, promuove inediti contatti, e forse un’esperienza irreversibile senza possibilità di ritorno ad una obbedienza collettiva, frutto anche di un alibi ideologico.
Rapporto dunque col proprio tempo e con quello della storia. Dialogo con la storia dell’arte, anche occidentale, come si evince dalla grande installazione che scandisce l’architettura esterna di Palazzo Strozzi. Simmetria, proporzione e paradossale armonia trovano riscontro in un’installazione che restituisce all’arte il valore di intensa comunicazione.
I gommoni dei migranti sembrano stimmate visive di una memoria in transito. La sovrapposizione di una tragedia che si svolge nel presente a un passato ormai archiviato attraverso lo stile dell’architettura Rinascimentale. Ottusa è l’accusa di taluni ad Ai Weiwei di estetismo che invece tramuta il suo impegno civile e la visione di un mondo liberato nelle forme durature di un’arte senza bavagli e senza frontiere.
Io dico che l’arte, anche quella di Ai Weiwei, è un massaggio al muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva.