sabato 24 settembre 2016

Repubblica 24.9.16
A Palazzo Strozzi a Firenze la mostra del maestro cinese Ai Weiwei
Tra biciclette, zainetti e selfie l’opera è un inno alla libertà
di Leonetta Bentivoglio

Ci sono molti modi di dire le cose, e l’arte contemporanea sceglie spesso il più indiretto e obliquo nel ventaglio di significati. Apre squarci interrogativi più che dare risposte. Provoca concettualmente più che coinvolgere. L’artista cinese Ai Weiwei procede in tutt’altra direzione. Con le sue opere perfide, spassose, provocanti, “spalancate” verso i sensi del visitatore, esplicite nei messaggi, limpide nel trasmetterci la rabbia politica dell’eterno dissidente, ama viaggiare nell’urgenza di una comunicazione immediata. Forse proprio a questo suo tratto coraggiosamente diretto, quasi elementare per evidenza, Ai Weiwei deve il suo enorme successo. Al suo lavoro pluridecennale Palazzo Strozzi dedica la prima, grande retrospettiva italiana, che coincide col più completo ritratto mai tributatogli.
Appena inaugurata a Firenze, la mostra, il cui titolo, Libero, è semplice e aperto come tutto il mondo di Ai Weiwei, sarà in corso fino al 22 gennaio.
La dimora rinascimentale che l’accoglie è occupata in ogni spazio dalle strategie di questo lottatore, impadronitosi del fuori, del dentro e del sotto. Spicca all’esterno una fila di gommoni appesi alle facciate come un perimetro scarlatto, scandendo le linee armoniose dell’edificio e riprendendo la sagoma delle finestre. Il monumento sta meritando quindi una “Nuova cornice” ( Reframe), e presenta così un punto di vista scioccante e ludico applicato a un vessillo della storia d’Occidente. La tragedia di profughi e migranti si specchia nella fragilità delle strutture cui aggrapparsi, emblemi spaesati sui muri di Palazzo Strozzi come i destini di chi approda in un’Europa ignota.
Nel cortile svetta Refraction, un’ala costruita con pannelli solari e ancorata al suolo. La sua tagliente incombenza suscita un effetto claustrofobico che riflette l’oppressione delle prigionie, come quella imposta ad Ai Weiwei nel 2011, quando venne chiuso per 81 giorni dalla polizia in un luogo segreto. Nel piano nobile ci si ritrova immessi dentro il labirinto di biciclette di Forever, pronte a farci immaginare l’affollamento delle strade in Cina, l’angoscia del suo traffico e l’importanza della libertà di muoversi per chi non ce l’ha. La muraglia di bici moltiplica il ricordo di Ruota di bicicletta, un ready-made di Marcel Duchamp, maestro di riferimento della gioventù newyorkese di Weiwei insieme ai surrealisti, ai dadaisti e agli esponenti della pop art.
Un’altra sala ospita Snake Bag (“Borsa Serpente”), dove 360 zainetti scolastici, omologati nel loro identico bianco e nero, si assemblano in un serpentone. Il mostro invade una parete cristallizzando la memoria del terremoto del 2008 in Sichuan, dove morirono settantamila persone. Migliaia di studenti restarono sotto le macerie di scuole crollate a causa dei materiali scadenti con cui erano state costruite, e Ai Weiwei fu in prima linea nel denunciare le colpe del governo. L’itinerario espositivo comprende anche oggetti preziosi e realizzati con tecniche raffinate, in un’oscillazione ironica e sofferta tra il riconoscimento dell’antica cultura cinese e la protesta per gli abusi del presente o del passato prossimo. Con la delicatezza della porcellana, Ai Weiwei affronta temi spaventosi quali il mercato degli organi in Cina, riproducendo pezzi anatomici. O accatasta 1.500 granchi che rammentano la presenza di questi crostacei nell’iconografia tradizionale. O plasma copie di resti umani ritrovati in uno dei campi di lavoro nei quali, durante la Rivoluzione culturale, venivano rinchiusi dissidenti come il poeta Ai Quing, padre di Ai Weiwei, che fu esiliato per vent’anni.
Sezione forte della mostra è quella dei lavori in legno, che reinterpretano metodi di falegnameria autoctoni e secolari, estranei all’uso di chiodi, viti e colla e fondati su incastri prodigiosi: Grapes lega in un grappolo 34 sgabelli innalzando un acuminato maniero capace di vincere la forza di gravità e di proliferare nella ripetizione di un modulo. Un’altra tecnica cara all’artista, ma stavolta radicata nel registro più pop della sua eclettica e multimediale indole creativa, sono i faccioni realizzati con i Lego raffiguranti personaggi che hanno subito privazioni della libertà. Per Firenze sono Dante, Filippo Strozzi (bandito dai Medici), Girolamo Savonarola e Galilei.
Si svelano nelle teche rifacimenti pregiati di Sex Toys e delle manette imposte a Ai Weiwei durante la prigionia. Ma qui acquisiscono un tono di grazia in quanto fatte con la giada. E soprattutto in queste operazioni è chiaro come nulla di selvaggio o improvvisato turbi il rigore estetico dell’artista. Lo dimostra anche il tappeto formato da migliaia di fiori di porcellana lavorati a mano di Blossom (“Fioritura”, 2015). Però altre volte, spinto da un rapporto distruttivo con le ambivalenze del suo paese, compie gesti barbari e iconoclasti: per esempio riproponendo la devastazione dell’eredità storica perpetrata dal suo governo in una serie di vasellame neolitico da lui insultato con brutali vernici per carrozzeria.
Essendo Ai Weiwei un eroe dei social, seguito da milioni di fan non solo in Cina e a dispetto dei ripetuti oscuramenti dei suoi blog, la mostra abbonda di testimonianze del suo lavoro in rete e della sua frenesia di riproduzioni di sé, dai selfie fino alle immagini di proteste virali on line e ai monitor che documentano gli sviluppi della sua vita. Compresi i numerosi inseguimenti che ha dovuto subire: geniale per humour è la raffica di “foto di sorveglianza”, lungo la quale Ai Weiwei scova e ritrae i suoi aguzzini e le frotte di segugi che ha alle calcagna. Ed emana uno sprezzo esilarante e levigato il “vaffa” del suo dito medio eretto davanti a siti intoccabili come la Casa Bianca o a quadri mitici come la Gioconda. Il piano sotterraneo di Palazzo Strozzi, detto Strozzina, è ricco di opere soprattutto degli inizi. Vi si ammira tra l’altro un’ampia carrellata di studi fotografici in bianco e nero che splendono di magnetismo nella purezza dei contrasti e nella logica nobile dei rapporti formali, facendo emergere una struggente voglia di bellezza nonostante tutto.4