Repubblica 22.9.16
Fenomenologia del ridicolo e dialettica dell’imbecillità
Guida
su come ridere dell’idiozia e delle sue sempre nuove rivelazioni E di
satira, umorismo e comicità si parla da domani al festival di Livorno
di Maurizio Ferraris
Sinora,
e con esiti diversi, la filosofia si è esercitata in fenomenologie
dello spirito nel senso di “Phänomenologie des Geistes”. È giunta l’ora
di una “Phänomenologie des Witzes”, parallela alla prima, ma forse non
meno istruttiva, descrivendo le posizioni dello spirito rispetto alla
possibilità, sempre incombente, dell’imbecillità e della sua naturale
conseguenza, il ridicolo.
“Senso”, scriveva Hegel, è una parola
meravigliosa, perché indica al tempo stesso l’immediatezza sensibile e
irriflessa e il significato, il concetto, il fine. Questo vale anzitutto
per il senso del ridicolo, che ci indica il punto di partenza,
l’equivalente della certezza sensibile della Phänomenologie des Geistes.
È l’immediata impressione di ridicolo che suscitano persone, cose o
situazioni a cui spontaneamente si attribuisce la caratteristica
dell’imbecillità. Ma al tempo stesso è la macchia cieca di una
dialettica inquieta, più alla Kojève che alla Hegel. La dialettica
dell’imbecillismo è una dialettica negativa che conduce a una aporia: è
vero che l’imbecillità è il motore faustiano di ogni progresso umano, ma
è anche vero che l’immancabile risultato di questo progresso consiste
in sempre nuove rivelazioni dell’imbecillità.
La dialettica non
porta a una composizione armoniosa: quella ha magari luogo nei libri, ed
è bene che sia così, ma nel mondo non c’è un cornuto (per restare al
minor dei mali) che si consolerà del fatto che il fedifrago, con il
nuovo partner, ha dato vita a una iniziativa umanitaria piena di meriti.
Niente composizione, per il singolo, solo aporia. Proprio qui, tuttavia
si sviluppa un sentimento del contrario il cui risultato è per
l’appunto il riso. Si ride, suona un detto profondo e vero, per non
piangere, e, nel profondo, si ride solo della imbecillità, della
debolezza umana. Il male è lì, è in noi e fuori di noi, e avremmo ottimi
motivi per piangere. Invece ridiamo, come il villano di
Ho visto un re. È una superiorità, una mossa del cavallo, magari crudele, ma giusta.
Di
sé, facciamoci caso, si piange più di quanto non si rida. L’oggetto del
riso sono gli altri – l’uomo che cade di Bergson, la signora mantecata
di Pirandello. Si ride perché si ha coscienza, sia pure confusa, della
imbecillità e delle sue manifestazioni, a cominciare dall’assurdo.
Tuttavia, per imbecilli che siano gli altri, siamo sicuri che non siano
comunque meglio di noi? Non dimentichiamolo: l’imbecillità non esclude
il genio. Non abbiamo, per esempio, idea di quanto imbecille potesse
essere l’aspirazione di Fitzgerald a diventare quarterback della squadra
di baseball di Princeton. È certo che il primo crack-up, la prima
incrinatura, sta alla base di una serie di colpi di genio che toccano il
loro vertice proprio nel racconto del crack-up, del crollo finale, che è
stato considerato come il punto più alto della sua letteratura, che
concepisce la propria vita come «la storia postuma di un piatto
sbeccato».
Ma è anche vero che l’imbecillità è l’origine, ognuno
di noi è stato un bestione vichiano e poi un imperfetto, un incompleto,
un imbecille che ha commesso gaffes di cui arrossisce ancora oggi. In
parte lo è ancora, ma – questa la buona notizia – in parte non lo è più.
Qualcosa è successo, che chiamiamo cultura, educazione, senso del
ridicolo. Nell’imbecille fuori di noi, nell’immane presenza
dell’incrinatura, del crack-up, sentiamo l’imbecille in noi, e la
cultura è una grande diga costruita per tamponare quel mare immenso di
imbecillità che è il genere umano nel suo stato di natura. La
resurrezione dello spirito, la cultura, è il tentativo di lenire
l’incrinatura, di cancellare le tracce dell’imbecillità, e il miracolo è
che talvolta ci riesce, e che esiste qualcosa come un progresso dello
spirito umano, sia pure per contrarietà o per caso.
Molti anni
prima della sentenza sulle legioni di imbecilli, quando la morte era
ancora lontana, Eco si immaginava il dialogo tra Socrate e un discepolo,
in cui Socrate sostiene che per morire senza rimpianti bisogna
convincersi che il mondo è pieno di imbecilli. Non subito, ovviamente,
non da giovani, altrimenti si diventa nichilisti. Ma nel corso del tempo
bisogna prepararsi, bisogna imparare a morire, e capire che è proprio
vero che il mondo è pieno di imbecilli, anzi che lo sono tutti, noi
compresi. Il congedo sarà più lieve. Sarà questo farsi furbi? Sarà
questo imparare a vivere, infine, cioè quando non serve più a niente?
Guardando le cose con lo sguardo cosmico che si conquista attraverso la
fenomenologia, ci si rende conto che, come il saggio sa che non c’è
niente al mondo che meriti il pianto, così quello stesso saggio sa che
non c’è niente al mondo che meriti sino in fondo una risata. Sono
comicamente e tragicamente veri, due assiomi contraddittori. Il primo
dice: «Di tutto si può ridere». Ma il secondo dice: «Non c’è niente da
ridere». Il passo culminante, dopo la certezza sensibile, la coscienza e
l’autocoscienza, è la ragione. Che ci interpella chiedendoci: «Che cosa
c’è da ridere?» con la stessa superiorità rispetto alle cose del mondo
per cui, di fronte alla tragedia, ci chiederà: «Che cosa c’è da
piangere?».
A questo punto siamo fuori dell’imbecillità, fuori del
riso e fuori del pianto, nell’ideale della pura intelligenza. Ma, si
noti, sin qui non si sarebbe arrivati se non a colpi di riso, di pianto,
e soprattutto di imbecillità, nostra e altrui. Ecco la parentela che
unisce il ridicolo al sublime, la vicinanza che viene colta solo in modo
svantaggioso per il ridicolo, concepito come un sublime mancato, quando
è anche un sublime potenziale, il primo annuncio del sublime proprio
come la bellezza è l’immediato precursore del terribile. Quanto dire che
tra l’imbecillità e il genio c’è una sottile linea rossa che, nella
nostra coscienza infelice così come nella nostra ilare incoscienza, non è
mai oltrepassata al momento giusto.