Repubblica 22.9.16
Perché Croce piace all’estero ma non è profeta in patria
di Roberto Esposito
A Napoli un convegno sulla sua grande fortuna internazionale conferma la necessità di riscoprirne il valore anche qui in Italia
La
figura di Benedetto Croce ho spesso diviso i pareri, ponendo più di un
interrogativo sul suo posto all’interno della filosofia moderna.
Qualcuno, con qualche eccesso, si è spinto a parlare di un mistero di
nome Croce. Come conciliare, ci si chiede, un profilo teoretico non
troppo netto, più da grande intellettuale che da filosofo vero e
proprio, con il suo crescente successo internazionale? Perché su
quest’ultimo non vi sono dubbi. Basta scorrere il programma del Convegno
di Napoli in programma oggi e domani presso l’Istituto di studi storici
— organizzato dalla Fondazione che porta il suo nome, inaugurato questa
mattina dal presidente Sergio Mattarella, e intitolato appunto La
diffusione internazionale dell’opera di Benedetto Croce — per averne
conferma.
Dall’Inghilterra alla Germania, dagli Usa al Canada,
dalla Cina al Giappone, l’opera di Croce è oggetto di un interesse che
non ha uguali, forse con l’eccezione di Gramsci, nel panorama italiano
del ’900. Né si tratta di una scoperta recente. Il suo Breviario di
estetica elabora una serie di lezioni tenute nel 1912 al Rice Institute
di Huston. Come Aesthetica in nuce è lo sviluppo della voce Estetica
scritta per l’Encyclopaedia Britannica, con Bohr e Einstein. A cosa
addebitare tale travolgente successo per un autore così lontano dai
canoni della filosofia contemporanea — per intenderci, da Husserl e
Heidegger, Wittgenstein e Bergson, Sartre e Adorno? La risposta va
cercata in una duplice direzione, come dimostrano due vaste sillogi
appena pubblicate, Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa,
a
cura di Michele Ciliberto per l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, e
Lessico crociano. Un breviario filosofico- politico per il futuro, a
cura di Rosalia Peluso per La Scuola di Pitagora. Intanto Croce strinse
una serie di relazioni con i maggiori intellettuali del tempo, da Sorel a
Vossler, a Collingwood, che diffusero la sua opera in Europa. Stimata
da personaggi del calibro di Weber, Meinecke, Dewey, Ortega e Zambrano.
Già
al centro del dibattito europeo sul marxismo e la sua crisi, la sua
figura crebbe durante la prima guerra mondiale, quando rifiutò ogni
atteggiamento grettamente nazionalistico. E poi, ancora di più, quando
assunse il ruolo di capo dell’opposizione morale al fascismo. Ma anche
dopo la seconda guerra, egli si situa allo stesso livello di grandi
autori liberali quali Aron, Popper, Berlin, come ricorda Corrado Ocone
nel recente Il liberalismo del ‘ 900. Da Croce a Berlin (Rubettino).
E
allora? Da dove nasce quest’aria di sufficienza nei suoi confronti? Da
un lato dal rovesciamento speculare del provincialismo patriottico che
certamente ha caratterizzato il Ventennio italiano in una sorta di
pregiudizio antitaliano che ha portato alla liquidazione della nostra
cultura filosofica primonovecentesca, catalogata come neo-idealismo.
Dall’altro dalla marcata eterogeneità del lessico concettuale crociano
rispetto alle scuole filosofiche più in voga — fenomenologica,
esistenzialista, analitica. Alcuni dei problemi sono comuni, ma il
linguaggio, la prospettiva, la tonalità di Croce sono molto diversi. Ma —
ecco il punto — è sicuro che tale diversità spinga il filosofo italiano
all’indietro? Dipende naturalmente da cosa s’intende per filosofia. Se
le si assegna una connotazione logica, analitica o metafisica, con un
alto tasso di gergo specialistico. O se la si considera affacciata sul
“fuori”, a contatto con la politica, la storia, la vita — come è del
resto tipico dell’intero pensiero italiano.
Quando Croce scrive,
in polemica con “i filosofi puri” che «la filosofia ha sempre l’origine
sua nel moto della vita» e che essa «non può risolvere che i problemi
che la vita le propone», intende rompere lo steccato che spesso
rinchiude il sapere filosofico entro confini autoreferenziali. Certo,
Croce non avvertì che l’epoca moderna volgeva rapidamente al tramonto.
Cercò ancora in essa le chiavi per arrestarne la deriva. E questo non
può che allontanarlo da noi, ormai irrimediabilmente postmoderni. Ma,
ben lontano dall’abito distaccato e curiale che gli è stato cucito
addosso, egli colse con intensità, e talvolta disperazione, i drammi del
proprio tempo, cercando, fino all’ultimo, di fronteggiarli.