Stefano Rodotà
“Solo la battaglia per la dignità può salvare la democrazia”
intervista di Simonetta Fiori
Dal
lavoro al web, dalla famiglia al fine vita Stefano Rodotà analizza una
delle parole chiave della nostra contemporaneità: “Le leggi devono
proteggerla, è ciò che ci rende umani”
Tra le parole chiave del
nuovo millennio è la più abusata. Forse la più calpestata. La dignità è
anche un lemma centrale nel dizionario autobiografico di Stefano Rodotà,
che dai diritti sul lavoro a quelli dentro la famiglia, dalla
tecnocrazia alla tutela della privacy, ne ha fatto la bussola di una
ricerca intellettuale e politica cominciata oltre mezzo secolo fa.
Dignità è oggi il tema del nuovo Festival del diritto, da lui fondato a
Piacenza otto anni fa.
Perché oggi si parla molto di dignità?
«È
la parola che evoca direttamente l’umano, il rispetto della persona
nella sua integrità. Ed è ancora più immediata di parole storiche come
eguaglianza, libertà, fraternità. C’è una bellissima frase scritta da
Primo Levi: per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza
dignità l’identità è povera, diventa ambigua, può essere manipolata».
Ma
la parola rischia di essere contraddetta dai fatti. L’Ue, ad esempio,
esordisce nella sua carta dei diritti fondamentali con il termine
dignità. Ma sembra dimenticarsene con i migranti, alzando muri.
«Sì,
c’è uno scarto fortissimo. Quando nel Duemila è stato scritto quel
documento, nel preambolo si è voluto rimarcare che l’Europa pone al
centro della sua azione la persona. Lo sta facendo? No. Una
contraddizione che incrina il patto cittadini-istituzioni».
Una promessa non adempiuta.
«Con
conseguenze molto gravi. Il mancato rispetto della dignità produce un
effetto di delegittimazione. Tu non mi riconosci nella mia pienezza di
persona degna e io non ti riconosco nella tua sovranità istituzionale.
Da qui la rabbia sociale che alimenta il terrorismo e il caos
geopolitico. Difendere la dignità è difendere la democrazia».
La parola dignità ha segnato l’epoca successiva alla seconda guerra mondiale.
«Non
è un caso che quando la Germania ha cercato un termine per reagire alla
devastazione nazista ha trovato proprio dignità. Compare nel primo
articolo della costituzione. E compare nella carta costituzionale
dell’altro grande sconfitto, l’Italia».
In Italia la parola acquista una coloritura più forte.
«Sì,
le si affianca un attributo fondamentale: dignità sociale. La dignità è
anche nel rapporto con gli altri. Tu non puoi negarla al prossimo nel
momento in cui la rivendichi per te stesso. I costituenti italiani
strapparono la dignità da una condizione di astrattezza, fornendole una
solida base materiale. Prendiamo l’articolo 36: il lavoratore ha diritto
a una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del suo
lavoro e sufficiente a garantire a sé e alla sua famiglia un’esistenza
dignitosa. Cosa volevano dire i nostri padri? La dignità non è a costo
zero. Esistono diritti che non sono a costo zero».
L’aver introdotto nella nostra carta il pareggio di bilancio indebolisce questi diritti?
«Non
c’è dubbio. L’articolo 81 è un vincolo fortemente restrittivo e non
necessario. Giustificato con il solito ritornello: ce l’ha chiesto
l’Europa».
La crisi economica ha giocato contro.
«Sì. Ma ha
inciso soprattutto la pretesa di spostare nella sfera economica il luogo
dove si decidono i valori e le regole. Questo ha comportato uno
spostamento del potere normativo: poiché sono io quello che gestisco il
danaro e investo, sono io che detto le regole. Il tramonto dello Stato
costituzionale dei diritti».
La dignità è una parola flessibile, adatta alla contemporaneità liquida. Come cambia nell’epoca della tecnologia?
«Un
primo importante cambiamento riguarda la costruzione stessa
dell’identità. Quando io posso raccogliere una serie di informazioni su
una persona, e sono anche in grado di fare valutazioni prospettiche — se
ha fatto questo, farà anche quest’altra cosa — in sostanza io sto
partecipando alla costruzione della sua identità».
L’identità e
dunque la dignità vengono manipolate. Ma c’è un’altra offesa della
dignità che riguarda le persone che mettono in piazza la propria
intimità. Con esiti che possono condurre al suicidio.
«Qui
entriamo in un terreno molto complicato. Quando io metto in circolazione
delle informazioni che mi riguardano devo sapere che la rete determina
effetti di moltiplicazione. E quando io ricevo informazioni che
riguardano altre persone dovrei riconoscere una sfera privata che non
posso manipolare».
Ma come si tutela la dignità dei sentimenti in rete?
«La
prima cosa che mi viene da dire: tieniteli per te. Ma il problema dei
sentimenti è un problema di relazione: sono in gioco i miei rapporti con
un’altra persona, con un gruppo. E allora bisogna porre dei paletti:
prima di far circolare contenuti che riguardano altri devo preoccuparmi
che ci siano il consenso o la consapevolezza di quelle persone».
Un altro versante riguarda la dignità del morire. In Italia non esiste ancora una legge sul testamento biologico.
«E
per fortuna, oserei dire. La legge prospettata era molto restrittiva,
rispetto a una coraggiosa sentenza della Corte Costituzionale che nel
2008 riconobbe il diritto del governo del corpo esercitato in piena
autonomia. Il legislatore ha il vizio o la propensione a impadronirsi
della vita delle persone. In Italia abbiamo diffidenza verso le
decisioni autonome: la libertà non è vista come bene da salvaguardare ma
rischio da tenere sotto controllo».
Dalle tecnoscienze alla bioetica, dalla privacy ai diritti d’amore, dignità è la parola chiave del suo impegno.
«Sì,
ma l’ho scoperto piano piano: la dignità è un modo antropologico di
vivere. Se io riconosco a una persona dignità, non posso comportarmi
come se questa consapevolezza non l’avessi mai acquisita».