Repubblica 22.9.16
Siria, se nessuno ferma Assad
di Bernardo Valli
LA
 settantunesima Assemblea generale delle Nazioni Unite può essere 
interpretata come la celebrazione di un fallimento. Quello della 
“società internazionale”, rappresentata dalla platea newyorkese, di 
fronte alla guerra siriana (ma anche irachena) entrata nel sesto anno. 
La riunione planetaria dell’Onu è il mondo che guarda passivo, 
impotente, un massacro in corso sotto i suoi occhi.
NON è una 
novità nella Storia. No, non si tratta di un atto di coraggio. È 
l’esatto contrario. Il conflitto avviene in terra araba, ma oltre a un 
mosaico di movimenti nazionalisti, salafiti, jihadisti, a volte 
concorrenti a volte nemici o alleati, alla mischia partecipano potenze 
regionali che arabe non sono, Iran e Turchia, e naturalmente Stati Uniti
 e Russia. La sola superpotenza sopravvissuta e quella decaduta ansiosa 
di ridiventarla.
La rissa cosmopolita è offerta quotidianamente, 
come una piaga purulenta, insanabile, allo sguardo delle società drogate
 dagli schermi che riversano nelle case una realtà ritagliata, 
d’occasione. La nostra sensibilità di sudditi della civiltà delle 
immagini sarebbe ancora più appannata, se sulle coste europee non si 
abbattessero ondate di profughi in fuga. Allora tocchiamo con mano quel 
che trabocca dalla tragedia. Quei disperati colpiscono le coscienze di 
alcuni e appaiono ad altri una minaccia per le identità etnico-religiose
 europee. Sono visti come aggressori armati della loro sola miseria e 
del bisogno di aiuto. La tentazione di alzare muri di protezione è 
irresistibile, si concretizza, nelle contrade più diffidenti, verso un 
multiculturalismo visto come un inquinamento, e non come una novità 
rivitalizzante, quale è stata tante volte nella storia dei popoli più 
dinamici. E potrebbe essere, sul piano demografico, nell’Europa che 
invecchia, in particolare in Germania e in Italia, con un processo di 
integrazione adeguato. Ma la minaccia dell’identità è ormai agitata con 
successo e domina gli appuntamenti elettorali in Occidente, sulle due 
sponde dell’Atlantico. Quel conflitto si è trasferito da noi, non solo 
col terrorismo che alimenta l’islamofobia.
L’assemblea riunita a 
New York ha a suo modo costruito steccati che pur essendo morali o 
politici hanno uno scopo protettivo come le barriere in cemento armato. I
 massimi oratori hanno ammesso l’impossibilità di mettere fine a quella 
guerra. Hanno dichiarato la loro impotenza giustificandola con il 
comportamento dell’avversario. Obama ha detto che la sola via 
praticabile è quella diplomatica. Ma resta difficile. Per ora 
impraticabile. Tale la giudicavano gli addetti ai lavori che poche ore 
dopo avrebbero partecipato alla riunione del Consiglio di Sicurezza, 
dedicata alle responsabilità per la rottura della tregua in Siria.
Obama
 ha scaricato la responsabilità su Vladimir Putin. Il russo aveva già 
fatto altrettanto nei suoi confronti. Fino a pochi giorni prima partner 
sia pure riluttanti, comunque promotori di una tregua, poi fallita, in 
poche ore russi e americani sono ritornati avversari. E come tali 
principali responsabili della guerra siriana, in quanto depositari delle
 sole forze militari e delle uniche armi politiche-diplomatiche in grado
 di far cessare il conflitto, o di ridimensionarlo.
Tutte le leggi
 umanitarie sono state o vengono violate nella valle del Tigri e 
dell’Eufrate. Va ricordato in questi giorni non certo gloriosi. Sono 
state e sono violate con l’uso di armi chimiche, con i bombardamenti 
sulla popolazione civile, compresi ospedali e convogli umanitari, con le
 torture sistematiche, con il non rispetto delle tregue concordate per 
evacuare feriti e amma-lati, con la distruzione di scuole, con la 
profanazione dei luoghi di culto. L’impossibilità dichiarata di non 
poter fermare il sinistro happening in cui ad ogni alzare di sipario, ad
 ogni telegiornale, cambiano i ruoli, i cattivi diventano vittime, e le 
vittime assassini, illustra appunto il fallimento celebrato a New York. 
Ma assume anche il valore di un muro oltre il quale si svolge una 
tragedia che non possiamo arrestare. Di conseguenza non ci si può 
lasciar investire dall’ondata umana e neppure dall’angoscia provocate da
 quel dramma. Questa sembrava l’atmosfera dominante all’Assemblea 
generale di New York, se ci si attiene agli interventi. La guerra 
siriana che alimentava i discorsi nel mondo non pesava su quella platea.
A
 quattro mesi dalla fine del suo mandato, e a poco più di un mese 
dall’elezione del suo successore, Barack Obama, premio Nobel per la pace
 di sette anni fa, non è forse più strettamente implicato negli 
avvenimenti in corso. Per lui sarebbe troppo presto parlare per la 
storia, ma il presente che lo riguarda è ormai troppo corto perché 
riesca a coinvolgerlo. I giudizi tendenti a riassumere il passato 
spuntano tuttavia puntuali nel suo intervento all’Assemblea generale. 
Per lui, un quarto di secolo dopo la fine della guerra fredda, il mondo è
 meno violento e più prosperoso che mai, mentre le nostre società sono 
in preda al malessere e alla discordia. Questa è la sua visione di 
presidente che se ne sta andando dalla Casa Bianca. Sempre per lui, 
cresce un populismo pesante, ascoltato sia dalle aperte democrazie 
dell’Occidente sia dal resto dell’umanità. La quale sarà instabile fino a
 che l’1% disporrà di una ricchezza uguale a quella del restante 99%. 
Tracciando questo affresco della situazione che ha osservato e 
influenzato durante due mandati alla Casa Bianca, Obama si è dilungato 
sui successi ottenuti in politica estera: la normalizzazione dei 
rapporti con Cuba e l’accordo sul nucleare iraniano. Ha evitato di 
parlare di suoi insuccessi riferendosi al Medio Oriente: la questione 
israelo-palestinese rimasta insoluta e il dilagare della guerra siriana.
Infiammata
 dalle invasioni del suo predecessore, Bush jr, prima in Afghanistan e 
poi in Iraq, la regione ha imprigionato Barack Obama. Il suo disimpegno 
in Iraq ha lasciato spazio a un conflitto cronico con l’emergere dello 
“Stato islamico”, ma soprattutto con il confronto tra l’Iran sciita, 
riammesso in società con l’accordo sul nucleare, e l’Arabia saudita 
sunnita, sensibile alla promozione dello storico avversario. Barack 
Obama ha rifiutato di rituffare gli Stati Uniti in un’avventura 
mediorientale. Non è rimasto estraneo ma non si è lasciato coinvolgere. 
Non ha così impedito la tragedia siriana. Né ha saputo imporsi con 
Putin, stretto alleato di Bashar al Assad, il rais di Damasco, che 
garantisce alla Russia una presenza in Siria, sul Mediterraneo (tra 
Tartus e Latakia). E crea un prezioso anche se agitato rapporto con 
l’Iran. Assad, la cui famiglia governa a Damasco da quasi mezzo secolo, è
 uno dei principali ostacoli a un eventuale accordo in Siria. Lui, 
Assad, e Hafez, il padre defunto, sono responsabili di repressioni con 
decine di migliaia di vittime, dell’uso sistematico della tortura e di 
armi chimiche. Il fatto che Assad sia ancora al potere è una prova del 
fallimento. Obama non ha saputo, non è riuscito a rompere l’alleanza 
Putin-Assad.