Il Sole 22.9.16
Oltre il caos. Fra pozzi di petrolio e infiltrazioni terroriste
La geopolitica mondiale passa attraverso la Libia
di Alberto Negri
Perché
la Libia è importante per la geopolitica italiana e il Mediterraneo? La
caduta di Gheddafi nel 2011 ha rappresentato la maggiore sconfitta
dalla seconda guerra mondiale: è stato perso il controllo delle risorse
energetiche, sono sfumati miliardi di euro di contratti (una perdita
stimata 50 miliardi di dollari in 20 anni) e la sponda Sud è diventato
il trampolino di lancio dei migranti, un flusso accompagnato da timori
di infiltrazioni terroriste. Non solo. L’Italia è stata costretta a
bombardare il Colonnello: come ha spiegato l’ex ministro degli Esteri di
allora, Franco Frattini, la Nato aveva inserito tra i bersagli da
colpire anche i terminali dell’Eni.
I confronti a volte appaiono
un po’ forzati e impietosi ma la Turchia di Erdogan ci ha messo più di
un anno a concedere agli Stati Uniti la base di Incirlik contro l’Isis e
solo con la clausola di far fuori i curdi siriani. E ora tutti zitti,
dopo il fallito golpe del 15 luglio, davanti a qualunque nefandezza
compiuta dal leader turco.
L’abbandono del nostro alleato è stato
percepito nel mondo arabo non come il sostegno a un ipotetico processo
democratico ma un cedimento strutturale della nostra politica estera.
Una dimostrazione delle conseguenze l’abbiamo avuta con il caso Regeni e
nei rapporti con il generale egiziano Al Sisi, sponsor con Emirati,
Francia e Russia del maresciallo Khalifa Haftar, signore della guerra in
Cirenaica e schierato contro la Tripolitania dove si trovano i maggiori
interessi italiani.
Forse negli eventi libici non c’era
alternativa ma sta di fatto che l’Italia ha partecipato con migliaia di
missioni aeree alla defenestrazione di un dittatore che solo pochi mesi
prima, il 30 agosto 2010, avevamo ricevuto a Roma con in pompa magna.
Eventi che noi dimentichiamo in fretta, gli altri no.
Non è
consolatorio sottolineare come ha fatto un rapporto della commissione
Esteri del Parlamento britannico che Gran Bretagna e Francia, insieme
agli americani, in Libia hanno combinato un disastro paragonabile
all’Iraq: sappiamo bene che questi sono i nostri migliori alleati ma
anche gli amici peggiori.
Blair e i francesi lo avevano dimostrato
prima della caduta di Gheddafi facendoci una concorrenza feroce:
l’ineffabile Sarkozy, pur di batterci, aveva promesso al Colonnello le
centrali nucleari dell’Areva poi vendute ai sauditi, che hanno così
salvato l’azienda dal fallimento. Secondo la commissione l’intervento fu
deciso senza una pianificazione adeguata. Il rischio per i civili della
repressione di Gheddafi venne esagerato e “non c’era bisogno del senno
di poi per capire gli islamisti avrebbero sfruttato la ribellione”.
Ma
il parlamento inglese omette di fare un passo avanti: favorire gli
islamisti faceva parte della stessa strategia di usare i jihadisti per
abbattere Assad in Siria messa in pratica dalla Turchia con soldi
sauditi, qatarini e l’appoggio di Usa, Francia e Gran Bretagna, i
maggiori fornitori di armi delle monarchie arabe. Era questa la politica
dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton pensata per difendere gli
interessi Usa e tenere sotto pressione Russia e Iran. In queste manovre
della Clinton l’11 settembre 2012 a Bengasi ci ha rimesso la pelle
l’ambasciatore Chris Stevens.
Gheddafi e Assad per le grandi
potenze erano diventati moneta di scambio per rimediare agli scacchi
delle primavere arabe. Follow the money and the oil, segui dove si
dirigono denaro e petrolio: è una ricetta utile per capire il Medio
Oriente. Poi naturalmente le cose non vanno come si vorrebbe. Nel 2013
Francia e Usa rinunciano a bombardare Assad, il governo libico affonda
nella lotte tra fazioni, nasce il Califfato che si espande e ispira gli
attentati in Europa, interviene la Russia, aggirata nel 2011 dalla
risoluzione Onu sulla Libia, a far valere in Siria i suoi diritti di
superpotenza mentre i sauditi ora stanno perdendo persino la guerra
contro i ribelli sciiti Houthi dello Yemen.
La Libia, dove
l’Italia è andata piantare la bandierina a Misurata con una missione
mista umanitaria-militare a sostegno della lotta all’Isis, potrebbe
diventare adesso un’opportunità anche in questo quadro caotico creato
dai nostri alleati. L’offensiva del maresciallo Haftar nella Mezzaluna
petrolifera ha restituito peso politico a Tobruk, oscurata dalla
campagna militare di Misurata contro il Califfato.
Solo rimettendo
sullo stesso piano Tobruk e Tripoli si può arrivare a un’intesa che
inevitabilmente ruota intorno al petrolio e al controllo del Lia, il
fondo sovrano con 67 miliardi di dollari di investimenti (tra cui quote
Eni e Unicredit). E anche i loro sponsor esterni - arabi turchi,
occidentali - hanno degli interessi economici e politici per mettersi
d’accordo: ma prima deve finire l’era ambigua e devastante dei “pompieri
incendiari” e dei venditori di fumo.