Repubblica 22.9.16
Referendum
Lo stendardo del rinvio
di Michele Ainis
IL
REFERENDUM? Si sarebbe dovuto celebrare a inizio ottobre, poi a fine
mese, poi a novembre, ma forse se ne parlerà a dicembre: il rinvio
plurimo. La sentenza costituzionale sull’Italicum? L’udienza davanti
alla Consulta era fissata al 4 ottobre, invece è rimbalzata a data da
destinarsi: il rinvio ignoto. Che peraltro è anche un rinvio apodittico,
giacché nessuno si è degnato di spiegarne le ragioni.
LA NUOVA
legge elettorale? Fioccano le dichiarazioni e le mozioni, ma è tutto un
«gioco tattico» (Stefano Folli, ieri, su questo giornale), tanto fino al
referendum non si caverà un ragno dal buco: il rinvio mascherato.
È
lo stendardo della Repubblica italiana: se New York è la Grande Mela,
Roma è la Piccola Melina. Qui tutto scivola, slitta, si procrastina. E
c’è sempre un fattore temporale che tempestivamente permette di
temporeggiare. Così, la Consulta non decide per aspettare il Parlamento;
il Parlamento non decide per aspettare il referendum. D’altronde se
decidi ne accontenti alcuni e ne scontenti molti, mentre l’inerzia
t’assicura quantomeno uno stato di non belligeranza, senza amici ma
soprattutto senza nemici.
Cosa ripeteva il divo Giulio? Meglio
tirare a campare che tirare le cuoia. E infatti il rinvio fu la suprema
arte di governo, lungo la stagione democristiana durata mezzo secolo.
Ora la Dc è defunta, Andreotti pure, tuttavia l’Italia rimane sempre un
po’ democristiana.
Le prove? È democristiana la giustizia, dove le
udienze rinviate superano di gran lunga quelle consumate. E dove i
rinvii s’alimentano a vicenda, perché proiettano l’arretrato sul futuro,
come una sorta di macchina del tempo processuale. Naturalmente, anche
in questo caso, soccorrono argomenti inoppugnabili per decidere di non
decidere. Quelli illustrati da un giudice di Taranto, che a gennaio
rinviò una causa al 2019: «Ho già troppo lavoro e i lavori forzati sono
proibiti». Ma chi paga il conto della serva? Il popolo dei giustiziati
dalla giustizia ingiusta, chi reclama i propri diritti in tribunale, le
vittime innocenti dei reati, dato che nel 2015 la prescrizione ha
cancellato il 30 per cento dei processi a Roma, il 49 per cento a
Venezia.
È democristiana, in secondo luogo, la legislazione, dove
si manifesta da tempo immemorabile la tecnica dei rinvii a catena: la
legge x rimanda alla legge y che a sua volta rimanda alla legge k, e
alla fine della giostra chi ci capisce è bravo. Un modo per offuscare il
reale significato delle norme, specie quando risulti politicamente
imbarazzante; e così non si è mai vista una legge che stabilisca con
chiarezza lo stipendio dei dipendenti pubblici o dei Grand commis di
Stato, senza rinviare ad altre leggi, a decreti, a tabelle, ad allegati
che infine ne vietano la conoscenza per i comuni mortali. E se invece la
decisione legislativa è nitida come un giorno d’estate? Nessun
problema, si può sempre prorogare. Non a caso l’unica legge che ogni
anno arriva puntualmente è il milleproroghe (e mille commi). Fu
inventato nel 2005, come misura eccezionale; ma da allora in poi
l’eccezione si è convertita in regola. L’ultima creatura ha ricevuto il
suo battesimo lo scorso 24 febbraio, prorogando fra l’altro lo split
payment (che sarà mai?).
Infine il virus del rinvio sta
contagiando anche la legge più alta, la Costituzione. A spulciare da
cima a fondo la riforma, s’incontrano 11 rinvii alle leggi future e 12
ai regolamenti parlamentari. S’incespica sul nuovo articolo 70, che a
sua volta rinvia per 13 volte ad altrettanti articoli della Carta. Si
cade nel buco temporale dell’articolo 71, da cui s’affaccia la promessa
del referendum propositivo, condizionata tuttavia a una legge
costituzionale prossima ventura, nonché a un’altra legge ordinaria: il
rinvio al cubo. Ma se non altro in questo caso non potrà ripetersi
l’esperienza della Bicamerale presieduta da D’Alema, che uscì di scena
senza neppure un funerale. Nel 1998, infatti, il dibattito parlamentare
su quel testo di riforma non si concluse con un voto negativo, già
annunciato da Berlusconi; vista la mala parata, si decise di rinviarlo
sine die.
C’è sempre un che d’ingannevole quando la politica non
sa prendersi la responsabilità delle sue scelte. Quando le rinvia per
paura di scontentare gli alleati o gli elettori. Perché il rinvio
inocula un elemento di opacità nel tessuto delle democrazie. Perché il
più delle volte non serve a guadagnare tempo, ma casomai a sprecarlo. E
perché infine questo sotterfugio è specchio d’un Paese perennemente in
ritardo sui propri adempimenti. Come diceva Rivarol, «non aver fatto
nulla è certo un terribile vantaggio, ma non bisogna abusarne».