Repubblica 20.9.16
Darwin, Borges e Garibaldi nella terra degli spazi vuoti
L’Uruguay
è un Paese ricco di storia e di suggestioni scientifiche. Ed è
affascinante anche se, come dice la gente, non c’è “nulla da vedere”
di Piergiorgio Odifreddi
Einstein
ci ha insegnato che lo spazio e il tempo non sono separati e
costituiscono un tutto unico chiamato spazio-tempo, le cui parti si
influenzano a vicenda. Lo conferma un viaggio fisico nello spazio in
Uruguay, che corrisponde a un viaggio spirituale nel tempo. Non solo per
noi europei di oggi, ma anche per un semiargentino semiuruguayano di
ieri com’era Jorge Luis Borges, che già nel 1925 scriveva di Montevideo
nell’omonima e nostalgica poesia: «Sei la Buenos Aires che avevamo, e si
è allontanata quietamente negli anni. Una falsa porta nel tempo, le cui
calli guardano al passato più lieve».
L’accostamento tra
Montevideo e Buenos Aires non è ovviamente casuale, visto che le due
capitali distano soltanto duecento chilometri in linea d’aria, benché si
situino sulle rive opposte del maestoso Rio de la Plata. Il quale,
nonostante il nome, non è un fiume, ma un grandioso estuario in cui
confluiscono le acque del Rio Uruguay, che segna il confine occidentale
dell’Uruguay con l’Argentina, e del Rio Paranà, che è invece
completamente argentino. Oggi naturalmente non si arriva più a
Montevideo nella maniera spettacolare in cui ci arrivò il giovane
Charles Darwin, in una delle prime tappe del quinquennale viaggio
attorno al mondo che avrebbe cambiato la storia della biologia. E non
tanto perché in genere non ci si va per mare, visto che un traghetto
permette di arrivarci da Buenos Aires in poche ore. Quanto perché nel
Viaggio di un naturalista attorno al mondo (1839) Darwin racconta che
nella nera notte del 26 luglio 1832 la sua nave attraccò circondata da
uno stuolo di pinguini e foche che muggivano come buoi, e il 5 agosto il
suo equipaggio fu arruolato dal governo militare per domare
un’insurrezione di alcune truppe di colore.
Oggi la modesta Casa
del Governo di Montevideo, sulla centrale Piazza dell’Indipendenza, non è
più la sede del potere di caudillos e dittatori: anzi, ha pacificamente
ospitato per un mandato presidenziale un ex guerrigliero come José
Mujica. E, a proposito di guerriglieri, a Montevideo ha soggiornato a
lungo anche Giuseppe Garibaldi, la cui casa in via 25 Maggio 314 è oggi
trasformata in un museo: il numero civico è significativo, visto che
l’Eroe dei due Mondi si mantenne per qualche tempo insegnando
matematica. Tra il 1841 e il 1848 visse in questa casa con la moglie
brasiliana Anita: qui nacquero tre dei loro quattro figli e figlie, e
una vi morì. Lui combatté nella guerra civile uruguayana e nel grande
assedio di Montevideo. Oltre a vari cimeli e a una targa delle logge
massoniche Garibaldi, il museo mostra anche alcune camicie rosse: queste
costituivano infatti la divisa originale della Legione italiana che
combatté per difendere la Repubblica uruguayana dal dittatore argentino
Juan Manuel de Rosas, incontrato da Darwin nell’agosto 1833 sul Rio
Colorado. Che l’Uruguay sia una meta spirituale, e non fisica, lo
confermano i consigli di viaggio che si ottengono in loco quando si
domanda cosa si possa andare a visitare, al di là della capitale.
Qualunque sia il suggerimento, infatti, alla successiva domanda su cosa
ci sia di interessante da vederci, la risposta è invariabilmente:
«Niente». Ma bisogna andarci ugualmente, proprio per capire cosa
significhi visitare luoghi bellissimi in cui non c’è niente da vedere.
Una
possibilità è avventurarsi nell’interno del paese, popolato dai 27
milioni di pecore e dai 9 milioni di mucche che surclassano i 3 milioni
di uruguayani, concentrati soprattutto lungo la costa. L’altra
possibilità è seguire il mare a Est o a Ovest di Montevideo, ed è
appunto ciò che fece Darwin nei suoi due ritorni in Uruguay nel 1833. In
primavera si spinse al confine orientale del paese e rimase a terra per
un paio di mesi nei dintorni di Maldonado, iniziando una copiosa
raccolta di esemplari di quadrupedi, uccelli e rettili. In autunno
esplorò invece per un mese il Rio Uruguay, sul confine occidentale del
paese. Ripartì definitivamente il 6 dicembre, scrivendo sul suo diario:
«Spero di non rivedere mai più le acque fangose del Plata», come in
effetti fu.
Maldonado prende il nome dall’esploratore che fu
mandato in ricognizione nell’interno da Sebastiano Caboto nel 1527, e
non fece mai ritorno. Oggi la località è nota soprattutto per il fatto
di essere adiacente a Punta del Este e La Barra, che in quanto analoghi
sudamericani di Cannes e Saint-Tropez ospitano il loro bravo festival
del cinema. Qualcosa di interessante da vedere invece c’è: ad esempio,
Punta Salinas, all’estremo della penisola di Punta del Este, dove le
acque del Rio de la Plata confluiscono nell’Oceano Atlantico.
Ma
la vera attrazione dell’Uruguay orientale è sicuramente Casapueblo, un
impressionante complesso architettonico che alberga l’atelier, il museo,
l’abitazione e le dépendances per gli ospiti di Carlo Páez Vilaró: un
pittore, ceramista e scultore uruguayano morto novantenne un paio di
anni fa, che costruì con le proprie mani e a intermittenza questa
labirintica “scultura abitabile”, riuscendo a far convivere i muri a
calce delle case di Mykonos, le forme fluide di Gaudì e la struttura
frattale degli edifici di Hundertwasser.
Nell’Uruguay occidentale
la città più attraente è invece Colonia del Sacramento, che fin dal nome
promette di essere un villaggio coloniale, e mantiene la promessa con i
suoi conventi in rovina e le sue strade acciottolate. Una di queste si
chiama romanticamente Calle dei Sospiri ed è la più fotografata
dell’Uruguay, anche se leggende diverse fanno risalire il suo nome ai
bordelli che avrebbe ospitato, da un lato, o alla via che i condannati
avrebbero percorso verso il patibolo, dall’altro. Salendo duecento
chilometri verso Nord lungo il Rio Uruguay si arriva all’anonima
cittadina di Fray Bentos in cui Borges diceva di essere stato concepito,
nella quale passò molte vacanze della sua infanzia e che scelse come
luogo natale del protagonista di Funes, il memorioso (1944). Ed è qui
che si trova il luogo più interessante e conturbante dell’intero
Uruguay: il lager animale ormai dismesso, ma perfettamente conservato,
in cui la Liebig e l’Anglo macellarono per più di un secolo centinaia di
migliaia di capi di bestiame all’anno per produrre estratto di carne e
carne in scatola. Lo stabilimento investiva capitali inglesi, impiegava
manodopera locale e smerciava in Inghilterra e negli Stati Uniti «ogni
parte della mucca eccetto il muggito». Durante le guerre mondiali giocò
un ruolo cruciale nel rifornimento delle truppe anglosassoni. E quando
l’entrata dell’Inghilterra nel Mercato comune europeo lo rese meno
redditizio fu scaricato sull’Uruguay, che lo chiuse poco dopo.
Questo
e altro si vede in un paese che condivide con l’Argentina l’onore
dell’invenzione del tango, e con il Brasile quella del carnevale. Un
paese che ha vinto due volte la Coppa del Mondo di calcio, nel 1930 e
1950. Un paese in maggioranza non credente, in cui lo Stato e la Chiesa
sono separati fin dal 1904. Un paese che molti considerano il più bello
del mondo nonostante non ci sia «niente da vedere», o forse proprio per
quello.