Repubblica 20.9.16
Parla Ai Weiwei, protagonista di una grande mostra a Firenze “L’arte è sempre politica”
“Non elogiatemi sono un pugile che cerca rischi”
intervista di Leonetta Bentivoglio
FIRENZE
C’è chi trova un insulto alla magnificenza di Palazzo Strozzi la fila
di gommoni rossi che da qualche giorno segna come una corona di sangue,
riprendendo le linee delle finestre a bifora, due facciate
dell’edificio, su cui un artista giocherellone li ha appesi per
sbatterci davanti agli occhi la tragedia dei migranti in balia di
fragili imbarcazioni. Ma non era prevedibile e anzi benvenuta una mossa
così spettacolare da parte dell’artista cinese Ai Weiwei, di cui Firenze
presenta la più grande e completa esposizione mai dedicata al suo
lavoro? Saranno pure vilipesi dai turisti stupefatti che si ferma–
no
a guardare con la bocca aperta i ventidue gommoni, senza riconoscere
quella stessa immagine nelle pagine delle loro guide; saranno pure visti
da certi commentatori già all’attacco come un insulto agli ideali
armonici del più sontuoso esempio di dimora rinascimentale. Però si sa
che di sorprese traumatiche è pieno il percorso del magnetico Weiwei,
perseguitato in patria e applaudito come un popstar nei musei
d’Occidente, violento e ludico nei suoi mix di passato e presente,
luoghi simbolici e interventi dissacranti. S’intitola Libero la sua
retrospettiva, pronta a inaugurarsi il 23 di questo mese e in corso fino
al 22 gennaio, con un allestimento che invade il palazzo fuori e
dentro. Il centro del cortile è schiacciato da una claustrofobica ala
metallica che vuol rammentare i giorni di detenzione di Weiwei, mentre
le installazioni del piano nobile vanno da Forever, labirinto
duchampiano che incastra un migliaio di biciclette cinesi e neorealiste,
a Sichuan, serpentone formato dai 360 zaini di bambini morti nel crollo
delle scuole collassate a causa di costruzioni scadenti durante il
terremoto del 2008, e a Objects, che evoca con inquietanti riproduzioni
di pezzi anatomici il mercato di organi in Cina. Ha curato la mostra
Arturo Galansino, giunto a dirigere Palazzo Strozzi con idee forti sulla
contemporaneità, territorio in cui Weiwei è il massimo che si possa
avere oggi. Influente nei messaggi, seguito da milioni di fan sui social
e temerario fino all’autodistruzione.
Ai Weiwei, questa mostra è un gigantesco autoritratto?
«È
un viaggio nelle mie opere dagli anni Ottanta a oggi: include il mio
periodo giovanile newyorchese, con la scoperta di Andy Warhol e Marcel
Duchamp, le opere simboliche realizzate in seguito, con massicci
assemblaggi di utensili, e i recenti progetti politici sulle
migrazioni», risponde Weiwei, che ha l’aspetto di un gigante buono e
imbronciato, e uno sguardo che mescola ombre e ironia. «Sono un
lottatore. Se facessi l’atleta sarei un pugile. Prendo cazzotti che
fanno male e mi metto in situazioni a rischio. Non vado in cerca di
elogi. La mia battaglia è politica e sociale: l’umanità va difesa. La
libertà non è una parola che si può dare per scontata, ma è frutto di
una lotta. L’arte è sempre politica».
Sempre? E allora dove mettiamo la bellezza?
«L’arte
è la capacità filosofica di trasformare un costrutto artistico in un
linguaggio espresso. Arte può essere qualsiasi cosa. E la politica può
avere il senso di un atto estetico. Certi teatrini di dibattiti sulle
elezioni americane hanno un alto tasso di humour. L’arte di Shakespeare è
spesso pura politica».
Bellezza sono anche i capolavori di Botticelli, di cui lei, qui a Firenze, ha ammirato i quadri fino a commuoversi.
«Ogni
messaggio estetico è politico. Botticelli può definire un diverso
concetto di bellezza in relazione allo spirito del proprio tempo. L’arte
richiede una mente critica. Quanto a me, lavoro in relazione ai
cambiamenti del mondo. La crisi dei migranti è all’ordine del giorno ed è
quindi al centro dei miei interessi. Sul piano estetico esploro forme e
materiali reinterpretando la tradizione cinese con l’uso di legni
pregiati o della giada o della porcellana o d’altro. Amo l’antico e non
vi rinuncio. Un’altra mia direzione esplora i mutamenti sociali
attraverso Internet ospitando il dissenso della gente e le proteste
online».
Nella serie “Leg Gun” una sua foto postata su Instagram
la coglie mentre imbraccia una gamba come una pistola: il gesto è stato
ripreso da migliaia di follower. E proliferano immagini della sua vita
pubblicate sul suo blog, come un’ossessione.
«L’arte potrà avere
un futuro solo adattandosi alla tecnologia. I social danno libertà
d’espressione. In una società come la Cina il singolo non esiste, ma
grazie ai nuovi strumenti tutti possono diffondere pensieri e opinioni.
Me ne infischio dell’ego e della fama: mi preme che sia sentita la voce
di tutti, e io posso farmi tramite. Credo nell’umanità e nel bisogno di
comunicare. Per un certo periodo, in Cina, sono stato in carcere
sorvegliato dai soldati 24 ore su 24. Mi guardavano anche quando dormivo
e andavo al cesso. Erano lì. Professionali. Non sapevano nulla di me né
dei miei crimini. Dopo un po’ hanno preso a sussurrare. Bisbigliavano.
Richiedevano la mia attenzione. Chiunque al mondo vuol dialogare col
prossimo. Non esiste alcuna situazione che possa reprimere
quest’urgenza».
Numerosissimi sono anche i suoi selfie.
«Significano
immediatezza e informazione pura. Oltre al carcere ho avuto una lunga
fase di arresti domiciliari. Vivevo tra telecamere e microspie. I selfie
sono stati anche un modo per dare notizie su di me all’esterno. La mia
esistenza è diventata simbolica per molti, visto che mi adopero per dare
la parola a persone che non possono essere ascoltate. La mia fede nei
diritti umani è totale. E l’esposizione ai media rende le mie condizioni
più sicure. D’altra parte non ho niente da nascondere e non pretendo di
non esistere. Tutti possono affacciarsi sulla mia vita».
I messaggi delle sue opere sono sempre espliciti e diretti.
Mai “trasversali”. Come i gommoni di Palazzo Strozzi.
«L’artista
deve discutere e farsi comprendere apertamente su temi come la
sofferenza dei profughi. L’Italia ha uno straordinario patrimonio
culturale e i gommoni simboleggiano un passaggio salvifico che rinnova
un monumento dell’arte. C’è anche un punto di vista realistico in questa
scelta, ed è la generosità dell’Italia che continua ad accogliere i
rifugiati».
È vero che ha ereditato l’amore per l’Italia da suo
padre, il poeta Ai Qui, candidato al Nobel? In quanto dissidente, venne
deportato e condannato a pulire latrine.
«Mio padre non ha mai
perso la propria luce. Puliva i gabinetti senza sentirsi umiliato perché
in lui respiravano arte e cultura. Mi raccontava la storia romana e mi
mostrava riproduzioni della pittura rinascimentale. Con la rivoluzione
culturale quelle stampe meravigliose che mi avevano fatto sognare furono
strappate e bruciate. Lui fu picchiato e massacrato, ma restò sempre
calmo e gentile. Era colmo di un’energia artistica con la quale seppe
proteggermi in giovane età. Mio padre è stato la vittoria dell’umanità
di fronte alla barbarie».
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“I gommoni
su Palazzo Strozzi omaggiano la generosità dell’Italia nell’accogliere i
rifugiati” “Mio padre dissidente picchiato e massacrato fu sempre
gentile. Vinse la barbarie con l’umanità”