martedì 20 settembre 2016

Repubblica 20.9.16
L’analista Peter Bergen
“Anche in America è il momento della paura diffusa”
intervista di Arturo Zampaglione

NEW YORK. «Questo è il primo attentato di matrice jihadista a colpire con successo Manhattan in 15 anni, cioè dopo l’11settembre», dice Peter Bergen. «Fa parte della “new norm”, cioè di un mondo costretto a convivere con il terrorismo come se fosse un fatto normale. E purtroppo questa “convivenza” spinge l’opinione pubblica americana, già turbata dagli attentati di San Bernardino e Orlando, ad accodarsi alla grande paura europea per il jihadismo. Anche se – voglio dirlo in modo chiaro – è una reazione ancor meno razionale che altrove: perché la situazione negli Stati Uniti non è certo pericolosa come quella in Francia, in Belgio o persino in Italia». Autore di sei bestseller su Al Qaeda, i
foreign fighters e Osama Bin Laden (che intervistò di persona nel 1997), vice presidente del think tank New American Foundation e professore alla Arizona state university, Bergen è considerato tra i maggiori esperti mondiali di terrorismo. Il suo ultimo libro del 2016, United States of Jihad, è una analisi dello jihadismo “autoctono”, cioè di quei cittadini americani che, spiega Bergen, senza avere legami organici con Al Qaeda o lo Stato Islamico, né essere stati addestrati in Afghanistan o in Siria, né ottenere aiuti logistici dall’estero, fiancheggiano la Jihad e conducono, per lo più da soli, attentati in nome di Allah. Tra questi, probabilmente, anche Ahmad Khan Rahami, l’americano di origini afgane, responsabile della bomba di Chelsea.
Perché a suo avviso la paura americana per il jihadismo è più “irrazionale” di quella europea?
«C’è una differenza sostanziale tra le due sponde dell’Atlantico: in Europa occidentale le azioni jihadiste sono per lo più condotte da foreign fighters che tornano dalla Siria, dove hanno imparato le tecniche di combattimento, e che godono del sostegno del Califfato. Lo si è visto bene al Bataclan di Parigi: è stata un’azione di guerra quasi da manuale».
E invece negli Stati Uniti?
«Siamo più protetti, non fosse altro per l’oceano che c’è di mezzo. Risultato: dei 330 arrestati qui negli ultimi 15 anni per complicità con il terrorismo, l’80% – secondo le mie elaborazioni – erano cittadini americani o residenti da molto tempo, senza legami, se non ideologici, con il mondo della jihad. E per lo più hanno agito da soli, a volte provocando molte vittime, come nel caso di Orlando: ma più per la facilità con cui si sono procurati armi da guerra grazie alla legislazione permissiva, che non per le tecniche utilizzate».
Lo Stato Islamico continua però a rivendicare tutti gli attentati, anche quelli dei cani sciolti, come se facessero parte di una unica strategia globale.
«E’ vero, ma è una linea strumentale e propagandistica. Lo si è visto bene adesso: il Califfato ha subito definito l’attentatore che ha ferito nove persone nel Minnesota come “un soldato dell’Isis”, ma solo perché si sapeva che aveva inneggiato ad Allah prima di essere ucciso. Nel caso di Manhattan invece non ci sono state rivendicazioni nelle prime 48 ore: a conferma che neanche lo Stato Islamico era sicuro della matrice jihadista».
Molti dicono che dietro all’ultima catena del terrore c’è un sostanziale fallimento della intelligence americana.
«Sarei più prudente: questo, ripeto, è stato il primo attacco a colpire New York in ben 15 anni e quindi molto è stato fatto dall’intelligence. Non solo: l’azione di Rahami, se sarà confermata la sua responsabilità, appare molto artigianale, quasi dilettantesca: quindi più difficile da intercettare e comunque meno devastante» Che implicazioni avrà sulle elezioni presidenziali la bomba di Chelsea e più in generale la paura generalizzata per il terrorismo?
«Donald Trump continuerà, come ha già fatto, ad approfittare di questo episodio a fini elettorali, facendo leva sulle reazioni emotive: anche se, paradossalmente, il caso Rahami contraddice la sua offensiva contro i rifugiati, perché si tratta è a tutti gli effetti di un cittadino americano. Certo, Hillary Clinton ha molta più esperienza nell’affrontare i temi del terrorismo: ma temo che non le basterà a convincere quel numero crescente di americani che, come dicevo, sono stati contagiati dallo stesso virus del panico di matrice europea».