sabato 17 settembre 2016

Repubblica 17.9.16
Un padre laico
di Eugenio Scalfari

NON posso nascondere che nel momento in cui prendo in mano la penna per ricordare Carlo Azeglio Ciampi sono molto commosso: siamo stati amici per cinquantaquattro anni, amici intimi e fraterni quale che fosse il suo ruolo: capo dell’Ufficio studi della Banca d’Italia e poi, dopo una rapida carriera, governatore.
E poi primo ministro di un governo tecnico che durò un anno, poi ministro del Tesoro con Prodi e con D’Alema, poi presidente della Repubblica e poi senatore a vita, oltre ad essere il padre degli italiani.
In tutta questa lunga vita, terminata poche ore fa, ha perseguito tutti i suoi affetti privati con sua moglie Franca, i suoi figli e una schiera di nipoti e pronipoti. Aveva una componente paternale molto intensa nel suo carattere, che lo ha distinto da tutti gli altri.
Padre degli italiani non per ragioni politiche ma caratteriali e sentimentali. Se debbo esaminare tra i presidenti della Repubblica che l’hanno preceduto e seguito non trovo alcuno con questa caratteristica. Forse Sandro Pertini, ma la sua paternità era molto diversa da quella di Ciampi: Pertini era un padre di combattimento, Ciampi un padre di pace, profondamente laico nei suoi ruoli pubblici ma profondamente cattolico nella sfera privata.
In politica non fece mai il tifo per questa o quella parte poiché la dominante sempre presente in tutti i suoi ruoli pubblici fu sempre l’interesse generale e quello per i poveri, i deboli, gli esclusi. Non a caso da giovane si iscrisse alla Cgil. Nacque a Livorno, dove sarà sepolto lunedì prossimo. Lì visse e studiò fino a circa trent’anni. Prese due lauree, una in Lettere l’altra in Giurisprudenza ed anche quella doppia scelta non fu casuale: amava la cultura e la legalità ed entrambe hanno alimentato la sua vita.
Il nostro rapporto di amicizia nacque dall’incontro che avvenne nel 1962 nello studio di Guido Carli. Conoscevo Guido da molti anni ma quella conoscenza diventò amicizia fraterna un paio di anni dopo la sua nomina a Governatore della Banca d’Italia nel 1960.
Qualcuno dirà che non gli è mai capitato di incontrare due uomini così diversi tra loro: tanto Ciampi era dolce nei sentimenti, tanto Carli era imperativo; tanto l’uno era paterno nella sua dolcezza, tanto l’altro era maschile e affascinante nella sua imperatività. Ma ciò che li legava entrambi da una profonda stima reciproca era il senso dell’interesse generale e della legalità e lo si vide paragonando le loro relazioni annuali da governatori: Carli denunciava quelle che lui chiamava “le arciconfraternite del potere”, Ciampi non amava denunciare ma esponeva quello che a suo giudizio era non solo il bene comune ma la necessità di tener sempre presente i bisogni dei ceti più poveri e più deboli. Carli promosse con la sua politica il cosiddetto “miracolo italiano” che portò al massimo gli investimenti, la produttività e l’occupazione; Ciampi fu l’autore dell’ingresso dell’Italia nella moneta comune.
Dopo il suo anno da presidente del Consiglio accettò la carica di ministro del Tesoro nel governo Prodi. La moneta comune europea, dopo ampi studi dei governi interessati, aveva come fautore principale la Germania. Prodi era anche lui favorevole ma preferiva aspettare e verificare che quel nuovo strumento funzionasse. Nell’autunno del 1996 partirono per un incontro a Madrid con il governo spagnolo e il principale argomento che esaminarono fu appunto la moneta comune europea. La Spagna si dichiarò favorevole rinviando però la sua adesione di qualche anno.
Nel viaggio di ritorno a Roma Ciampi mise tutta la sua logica economica e politica sostenendo che un Paese fondatore della Comunità europea doveva essere tra i fondatori della moneta comune. Prodi si convinse e incaricò lui di incontrare il Cancelliere tedesco e comunicargli la nostra adesione immediata e così avvenne. L’incontro con Helmut Kohl non fu soltanto una comunicazione di adesione dell’Italia a quello che sarebbe stato chiamato l’euro, ma anche un confronto sulla politica monetaria ed economica della quale l’euro sarebbe stato lo strumento per promuovere la crescita, l’occupazione ed anche il rafforzamento dell’Europa verso una struttura di graduale unità politica oltreché economica. Questo fu uno dei tanti risultati di Ciampi che va ascritto a principale merito dell’opera sua.
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Consentitemi ora di raccontare come nacque la nostra amicizia. Era, come ho già detto, il 1962 ed io stavo discutendo con Carli sulla situazione economica del nostro Paese, sui malanni della nostra economia e del nostro capitalismo “arciconfraternita del potere”. L’economia italiana era allora dominata da alcune grandi aziende pubbliche, tra le quali l’Eni e l’Italsider, ed altre private: la Fiat, la Edison di Valerio, la Montecatini di Faina, la Pirelli, l’Olivetti, la Sade. Più o meno i poteri erano questi, molti dei quali aderivano ad una sorta di salotto buono che era la Società Bastogi.
Carli aveva invitato a partecipare a questa nostra conversazione (che avveniva almeno una volta al mese) il capo dell’Ufficio studi che era appunto Ciampi che io incontrai in quell’occasione.
Lo studio di Carli era una piccola stanza con appeso alla parete dietro la scrivania del Governatore un quadro che rappresentava il corpo nudo di San Sebastiano trafitto dalle frecce d’un gruppo di torturatori. Lo ricordo perché era diventato simbolico e quindi celebre.
La discussione tra noi tre fu lunga e Ciampi fu molto concreto nel suggerire i modi d’una politica espansiva e antimonopolistica. Alla fine Guido mi disse: «Forse è bene che tu venga più spesso qui da noi e se io fossi occupato potresti andare nell’ufficio di Ciampi ed esaminare con lui le questioni che ti stanno a cuore». Ciampi si dimostrò contento e mi propose d’andare subito nel suo ufficio così avrei visto qual era la strada per arrivarci. Io ero ormai di casa alla Banca d’Italia e i commessi mi lasciavano piena libertà di movimento.
Così cominciò il nostro rapporto con incontri quasi settimanali che poi trasformavo in articoli sull’Espresso che dirigevo. Ma il rapporto con Carlo diventò presto fraterno, ogni tanto cenavamo nelle nostre case, le mogli si conobbero, insomma diventò una specie di famiglia.
Debbo dire che questo rapporto continuò e si accrebbe quando Carlo ascese al Quirinale. Ci vedevamo alla Vetrata e perfino l’estate in Sardegna. Io avevo allora una seconda moglie essendo rimasto vedovo e con lei avevamo una piccola casa a Porto Rafael, di fronte all’isola della Maddalena dove Carlo e la sua famiglia passavano una ventina di giorni in agosto nella casa che era sede del comando della Marina. I Ciampi ci invitavano spesso a cena con la partecipazione dell’ammiraglio Biraghi che era capo di Stato maggiore. Mandavano al molo di Porto Rafael una scialuppa con due marinai che ci portava alla Maddalena dove facevamo arrivare mezzanotte. Lì nacque con Franca Ciampi una profonda amicizia che dura tuttora. Lei è di poche settimane più giovane di Carlo e gli è stata accanto sempre, per sessantasette anni. Oggi l’ha visto morire, ma era consapevole che stava per accadere.
Avrei ancora tanto da raccontare su Ciampi governatore, ministro, presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, ma soprattutto su Ciampi amico fraterno. Ricordo ancora le visite che gli feci quando lui era già molto malato ma, avendo una residenza a Palazzo Giustiniani come tutti gli altri ex presidenti della Repubblica, spesso ci si faceva portare. Lì aveva una specie di piccolo letto nel quale si sistemava con le gambe distese e il torso e il volto sollevati. Così parlava e ascoltava. Spesso gli altri “emeriti” (termine che lui non amava affatto) venivano a trovarlo o lui andava da loro. Anche lì facemmo tante e lunghe chiacchierate. Lui aveva un libro di appunti, una sorta di diario quotidiano, che in parte è stato pubblicato e che credo meriterebbe d’essere ora ristampato.
Concludo: se ne è andato un Padre della patria nella vera accezione del termine. Per me se ne è andato un pezzo dell’anima mia.