il manifesto 17.9.16
Festival Filosofia
Neuroni mirror e facoltà di negare
Il potere tellurico del linguaggio non smette di interrogare l’intersoggettività
L’anticipazione
del contributo che il filosofo discuterà a Carpi (Piazza Martiri, ore
16.30) domani, ultima giornata del fitto programma di ospiti
dell’edizione 2016. «In una gocciolina di grammatica, diceva
Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia»
un’installazione di Jaume Plensa al Yorkshire Sculpture Park
di Paolo Virno
L’indagine
sulla negazione linguistica è, sempre, una indagine antropologica.
Spiegare le prerogative e gli usi del segno «non» significa spiegare
alcuni tratti distintivi della nostra specie: la capacità di distaccarsi
dagli avvenimenti circostanti e dalle pulsioni psichiche, l’ambivalenza
degli affetti, l’attitudine a trasformare repentinamente le condotte
più abituali.
In una gocciolina di grammatica, diceva
Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia. Ciò
vale in primo luogo per quella nuvola cumuliforme che è la grammatica
del «non»: da essa è possibile ricavare qualche notizia sul modo di
stare al mondo del primate Homo sapiens, nonché una chiave per decifrare
l’insieme di sentimenti e comportamenti che ci fanno parlare, a seconda
delle inclinazioni, di disagio della civiltà o di attualità della
rivoluzione.
Per dare il giusto risalto al ruolo che svolge il
connettivo logico «non» nella forma di vita umana, propongo tre ipotesi
concatenate sull’indole sociale, anzi pubblica, della nostra mente. A
essere più precisi: tre ipotesi il cui tema è la singolare discontinuità
tra il fondamento biologico di questa socialità e i suoi tortuosi
sviluppi linguistici, segnati per l’appunto dal potere tellurico della
negazione.
In origine era il «noi»
Prima ipotesi. L’animale
umano intuisce i propositi e le emozioni dei suoi simili in virtù di una
intersoggettività originaria, che precede la stessa costituzione dei
soggetti individuali. Il «noi» si fa valere prima ancora che venga alla
ribalta un «io» autocosciente. La relazione tra i membri della stessa
specie è, innanzitutto, una relazione impersonale. Sull’esistenza di un
ambito di esperienza pre-individuale hanno insistito pensatori come
Vygotskij, Winnicott, Simondon.
Vittorio Gallese, uno degli
scopritori dei neuroni specchio, ha riformulato la questione in modo
particolarmente incisivo, incardinando l’anteriorità del «noi» rispetto
all’«io» al funzionamento di un’area del cervello. Per sapere che
qualcuno soffre o gode, cerca riparo o rogne, sta per aggredirci o
baciarci, non abbiamo bisogno di proposizioni, né tanto meno di una
barocca attribuzione di intenzioni alla mente altrui. Basta e avanza
l’attivazione di un gruppo di neuroni situati nella parte ventrale del
lobo frontale inferiore.
Scrive Gallese: «Il nostro gruppo ha
scoperto nel cervello di scimmia l’esistenza di una popolazione di
neuroni premotori che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva
azioni finalizzate con la mano (per esempio afferrare un oggetto), ma
anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo
(uomo o scimmia che fosse). Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni
mirror”». Di lì a poco, si è constatata la presenza di neuroni mirror
anche nel cervello umano.
Allorché vediamo un manifestante sotto
la sede della Goldman Sachs che compie una azione di cui parleranno i
giornali, «nel nostro cervello sono reclutati a scaricare i medesimi
neuroni che scaricherebbero se fossimo noi stessi, in prima persona, a
compiere quell’azione». Comprendo il pianto dell’uomo che mi sta di
fronte perché le mie stesse ghiandole lacrimali cominciano a innervarsi.
Questo sentire all’unisono, o con-sentire, è chiamato da Gallese
«simulazione incarnata».
I neuroni mirror sono il fondamento
biologico della socialità della mente. A essi si deve la formazione di
uno «spazio noi-centrico». Con una avvertenza: il pronome «noi» non
indica, qui, una pluralità di «io» ben definiti, ma designa un insieme
di relazioni pre-individuali, ossia «una forma paradossale di
intersoggettività priva di soggetto».
Questo «non» è un uomo
Seconda
ipotesi. Di questa intersoggettività preliminare, appannaggio di tutte
le scimmie antropomorfe, il linguaggio non è affatto una potente cassa
di risonanza. Anziché ornarlo di mille raffinatezze, le nostre
enunciazioni retroagiscono distruttivamente sullo «spazio noi-centrico»
istituito dai neuroni mirror. La padronanza della sintassi intralcia, e
talvolta sospende, l’empatia neurofisiologica. La socialità della mente
umana è modellata dall’intreccio, certo, ma anche dalla tensione
duratura e dalla periodica divaricazione, tra «simulazione incarnata» e
pensiero verbale.
Il linguaggio si distingue dai codici
comunicativi basati su indizi e segnali, nonché dalle prestazioni
cognitive taciturne (sensazioni, immagini psichiche ecc.), perché è in
grado di negare qualsivoglia rappresentazione.
Anche l’evidenza
percettiva che ci fa dire «questo è un uomo» dinanzi a un immigrato
cessa di essere incontrovertibile allorché è soggetta all’opera del
«non». Nel linguaggio mette radici il fallimento del reciproco
riconoscimento tra conspecifici. Grammaticalmente impeccabile, dotato di
senso, a portata di ogni bocca è l’enunciato «questo non è un uomo».
Soltanto l’animale che parla ha la capacità di non riconoscere il suo
simile.
Il vecchio ebreo è roso dalla fame e piange per
l’umiliazione. L’ufficiale nazista sa che cosa prova il vecchio per
mezzo della «simulazione incarnata». Ma è in grado di disattivare,
almeno parzialmente, l’empatia generata dai neuroni mirror.
Per
capire come avviene questa disattivazione, consideriamo un tipico
requisito della paroletta «non». Il tratto caratteristico degli
enunciati negativi («Ada non mi ama», «Giorgio non è andato a Roma»)
consiste nel riproporre con segno algebrico rovesciato il medesimo
contenuto semantico del corrispondente enunciato affermativo. L’amore di
Ada e il viaggio a Roma di Giorgio sono pur sempre nominati, e così
conservati come significati, nel momento stesso in cui vengono
verbalmente soppressi. Supponiamo che l’ufficiale nazista pensi: «le
lacrime di questo vecchio ebreo non sono umane».
La sua
proposizione conserva e sopprime a un tempo l’empatia neurofisiologica:
la conserva, giacché si parla comunque delle lacrime di un Homo sapiens,
non di un umidore qualsiasi; la sopprime, togliendo alle lacrime
dell’ebreo quel carattere umano che, pure, era implicito nella loro
designazione.
Soltanto grazie a questa attitudine ad abrogare ciò
che nondimeno si ammette, il segno «non» può ledere un dispositivo
biologico «sub-personale» qual è il con-sentire. La negazione non
impedisce certo l’attivazione dei neuroni mirror, ma ne rende ambiguo il
senso e reversibili gli effetti. Il pensiero verbale, dimostrando una
notevole perizia nel mandare in rovina l’empatia neurale, costituisce la
condizione di possibilità di ciò che Kant ha chiamato il «male
radicale».
La sfera pubblica? Una cicatrice
Terza ipotesi.
Il linguaggio non manca di procurare un antidoto al veleno che ha
inoculato nell’innata socialità della mente. Oltre a sabotare in tutto o
in parte l’empatia prodotta dai neuroni specchio, esso offre anche un
rimedio (anzi, l’unico rimedio adeguato) ai danni così arrecati. Il
sabotaggio iniziale può essere a sua volta sabotato.
La sfera
pubblica, nicchia ecologica delle nostre azioni, è il risultato
instabile di una lacerazione e di una sutura, della prima non meno che
della seconda. Somiglia dunque a una cicatrice. Detto altrimenti: la
sfera pubblica trae origine dalla negazione di una negazione. Se a
qualche lettore ripugna il sapore dialettico di questa espressione, ne
sono desolato, ma non so che farci. A scanso di equivoci, conviene
aggiungere che la negazione della negazione non ripristina la primitiva
sintonia pre-linguistica. Sempre di nuovo eluso o neutralizzato, il
rischio del non-riconoscimento è però iscritto irreversibilmente
nell’interazione sociale.
Lo «spazio noi-centrico» e la sfera
pubblica sono i due modi, affini e però incommensurabili, in cui si
manifesta la socialità della mente prima e dopo l’esperienza della
negazione linguistica. Prima di questa esperienza, l’infallibile e
impersonale con-sentire neurale; dopo, conflitti senza quartiere, patti,
promesse, norme, istituzioni mai stabili, progetti collettivi dagli
esiti imponderabili.
Neuroni mirror, negazione linguistica,
intermittenza del reciproco riconoscimento: sono questi i fattori,
coesistenti e però anche dissonanti, che definiscono la mente sociale
della nostra specie. La loro dialettica destituisce di fondamento ogni
teoria politica (per esempio, quella di Noam Chomsky) che opponga la
naturale «creatività del linguaggio» all’iniquità e alla brama di
sopraffazione degli apparati di potere storicamente determinati.
La
fragilità dello «spazio noi-centrico», da imputare giustappunto alle
perturbazioni che il linguaggio e la sua «creatività» portano con sé,
deve costituire lo sfondo realistico di ogni movimento politico che miri
a una drastica trasformazione dello stato di cose presente. Un grande e
terribile filosofo della politica, Carl Schmitt, ha scritto con
evidente sarcasmo: «Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura
uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana».
È
venuto il tempo di smentire questa equazione maliziosa. Una analisi
accurata della mente sociale permette di impiantare «il radicalismo
ostile allo Stato» e ai rapporti di produzione capitalistici sulla
pericolosità della natura umana (pericolosità alimentata dall’uso
polivalente del «non»), anziché sulla sua immaginaria mitezza.
L’azione
politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presupposto
positivo da rivendicare. Si impegna invece a sperimentare nuovi e più
efficaci modi di negare la negazione, di apporre il «non» davanti a «non
uomo».