Repubblica 15.9.16
Rushdie: “Aboliamo lo scontro di civiltà l’unica nostra arma restano le parole”
Parla lo scrittore indiano ospite a Le Havre del Positive Economy Forum di Attali
“La lotta tra luci e ombre è sempre esistita Il fanatismo si ostacola promuovendo lo studio”
di Anais Ginori
LE
HAVRE «Spesso ce lo dimentichiamo, ma esiste un altro volto dell’Islam:
aperto, raffinato, cosmopolita ». Salman Rushdie cita il filosofo
andaluso Averroè per ricordare un’età dell’oro del pensiero islamico. «È
un filosofo paradossalmente più importante e noto in Occidente per i
commenti su Aristotele, fondamentale anche nel Rinascimento italiano »
ricorda lo scrittore, ospite d’onore del Positive Economy Forum
organizzato da Jacques Attali. Il padre del romanziere era uno studioso
appassionato di Averroè, chiamato anche Ibn Rushd, tanto che se n’è
ispirato quando ha cambiato il cognome della famiglia.
Sono
passati ventisette anni dalla fatwa contro Rushdie per I Versi Satanici,
dall’inizio di una vita blindata che ha raccontato nel memoir Joseph
Anton,
nome che aveva in clandestinità. Rushdie ha continuato la sua carriera
di scrittore, è tornato a una lenta normalità, ha pubblicato nel 2015
una favola comica e surreale, Due anni, otto mesi & ventotto
notti, nella quale parla anche della lotta tra Averroè, portatore di
Lumi all’interno della religione, e il rivale teologo persiano
Al-Ghazali, dalla parte delle tenebre.
Teme che nell’Islam possano vincere le tenebre?
«La
lotta tra luce tra luci e tenebre è sempre esistita, non c’è bisogno di
andare fino ad Averroè e al Dodicesimo secolo. Negli anni Cinquanta,
Beirut era una città piena di vita culturale e libertà, era stata
ribattezzata la “Parigi del Medio Oriente”. Lo stesso era per Damasco,
Teheran, Bagdad: erano posti di grande raffinatezza, città cosmopolite e
moderne dove si poteva fare tutto, non c’erano donne col burqa, gli
scrittori non erano condannati a morte per ciò che scrivevano e neppure
gli omosessuali. La regressione è andata molto veloce. Io, come molti,
l’ho potuta osservare nel corso di una vita. Purtroppo questo volto
dell’Islam è in parte scomparso, ma possiamo sperare che torni. È per
questo che non amo l’espressione “scontro di civiltà”. È riduttiva e
sbagliata. Tutto è molto più complicato, dietro c’è soprattutto la lotta
tra sciiti e sunniti».
Papa Francesco sostiene che esistono anche forze economiche che strumentalizzano la religione.
«Mio
Dio, questo Papa è davvero un marxista! Una delle cose che abbiamo
imparato negli ultimi decenni è che l’economia non è tutto e le
ideologie sono ancora molto potenti. Anche Marx si era sbagliato. Ma
anche io, nel mio piccolo, non avrei mai previsto un ritorno così
prepotente della religione come sta avvenendo nella nostra epoca. Per
mestiere mi dedico alla vita intellettuale, quindi non sono un esperto,
ma se guardiamo all’aumento dei fanatismi, non solo quello islamico ma
anche di altro tipo, per esempio quello indù in India, vediamo che
l’origine è nell’ideologia e non nei fattori economici. La gente è
capace di fare cose incredibili in nome di un’idea».
I francesi sono sotto attacco anche per un modello di laicità che si fa fatica a capire all’estero. Lo condivide?
«Certo,
sono uno strenuo difensore della laicità e della libertà di
espressione. Non ho capito come mai tanti scrittori, anche miei amici,
non abbiano voluto dare il premio del Pen Club al giornale Charlie
Hebdo. È un segno dei tempi. Ma i francesi sono forti, anche se vedo che
hanno molta paura. Io dico: Courage! Ricordo il periodo del terrorismo
dell’Ira in Gran Bretagna, con continui attentati e una tensione
perenne. Ero impressionato nel vedere i britannici continuare la vita
come se niente fosse, forse perché non c’era altro da fare. Ho vissuto
anche nella New York dell’11 Settembre. Subito dopo l’attacco, i
newyorchesi erano effettivamente molto spaventati, disorientati, persino
affettuosi. Passati pochi giorni hanno ricominciato a essere se stessi:
ovvero indifferenti, duri, implacabili. Per fortuna».
La sua carriera di scrittore sarebbe stata diversa se non fosse stato vittima di una fatwa?
«È
una domanda che mi sono posto molte volte. Una parte di lettori
probabilmente ha scoperto le mie opere sull’onda della curiosità
suscitata dalla mia condanna a morte. Ma ho incontrato molte persone che
non hanno letto I Versi satanici perché dalle polemiche si erano fatti
un’idea sbagliata, pensavano fosse un saggio teologico noioso, blasfemo,
mentre è un libro divertente, almeno così l’ho concepito. La verità:
molti ne parlano senza averlo mai letto. Dopo la fatwa, il problema è
stato cercare nei miei libri allegorie o metafore sull’Islam, mentre a
me non interessa lanciare ogni volta messaggi. Amo un certo surrealismo,
la fiction».
Cosa direbbe a un giovane che è attratto dal fanatismo, dalla jihad?
«L’unica
nostra arma è quella di continuare a discutere. Per quanto mi riguarda
scrivo, ma c’è chi fa musica, dipinge, cinema, le arti in generale sono
fondamentali per nutrire la vita intellettuali dei giovani. Mi preoccupa
che in molte parti del mondo, credo anche in Francia e in Italia, i
governi stiano tagliando le sovvenzioni. Una società che vuole
combattere i fanatismi, ma anche provare a costruire il suo futuro, deve
conoscere il suo passato, imparare a riflettere, alimentare il
dibattito delle idee. Oggi purtroppo si tende a pensare che lo studio
delle scienze e delle tecnologie sia sufficiente. Non è così. Quando
leggi un libro, scopri altri mondi, nuovi modi di pensare, e lasci una
traccia per le future generazioni».
Quando scrive, si preoccupa di lasciare una traccia?
«Non
teorizzo nulla sul mio modo di lavorare ma sono felice quando incontro
giovani lettori di I figli della mezzanotte, ragazzi che non erano
neppure nati all’epoca della prima pubblicazione. Probabilmente tutti
gli scrittori sognano in un angolo della loro testa di poter essere
letti dalle future generazioni. Non esiste una ricetta per passare ai
posteri, mi piacerebbe pensare che i miei libri mi sopravviveranno.
Sottoscrivo un’immagine di Aimé Césaire: vorrei pensare che dopo la mia
morte sarò uno scaffale nelle librerie: da qui a qui, sono io».