Corriere 15.9.16
Aleppo e le ultime speranze
di Paolo Mieli
In
queste ore potrebbero esserci, da parte dei jihadisti, attentati e
azioni militari anche clamorose. Eppure questa nuova iniziativa di pace
per la Siria — la diciottesima — potrebbe funzionare. Anzi, in un certo
senso ha già funzionato.Non solo perché da lunedì consente agli aiuti
internazionali di portare sollievo ad Aleppo e ad altri centri
semidistrutti dai bombardamenti, ma anche per il fatto che alla base
della tregua tra russi e americani c’è un chiarimento. Chiarimento che
riguarda il ruolo di Al Nusra, la formazione nata nel 2012 da una
costola di Al Qaeda che ha fin qui combattuto gomito a gomito con
l’Esercito libero siriano finanziato e armato in funzione anti Assad
dagli Stati Uniti. Negli ultimi tempi il ministro degli Esteri russo
Sergej Lavrov aveva avuto buon gioco a far osservare al collega
americano John Kerry la singolarità di questa alleanza — sia pure
indiretta — tra gli Stati Uniti e una formazione jihadista composta, per
così dire, da eredi degli attentatori delle Torri Gemelle. La reazione
un po’ ipocrita era stata quella di indurre i qaedisti siriani a cambiar
nome. A fine luglio 2016 il loro leader, Abu Mohammed al Joulani, è
comparso in video per rivelare che Al Nusra aveva rotto con Al Qaeda,
salvo poi, quasi ad attenuare l’impatto emotivo dell’annuncio,
specificare che quella rottura era piuttosto una «separazione
consensuale». Al Joulani aveva proclamato che da adesso in poi Al Nusra
si sarebbe chiamata Jabhat al-Fatah al-Sham (Fronte per la conquista del
Levante).
A Domenico Quirico — inviato dalla Stampa a Idlib, dal
marzo del 2015 la capitale qaedista in Siria — non era sfuggito che si
trattava di «mimetismi, trucchi semantici per attrarre altri gruppi
islamisti minori, Ajnad al Sham, Liwa al Haqq, piccoli ma feroci».
Mimetismi, proseguiva il giornalista, approntati all’istante in modo da
«continuare a ingannare un Occidente che sogna sempre un Islam educato e
meno assassino». E invece, secondo Quirico, quei «nuovi qaedisti»
uccidono, mettono autobombe, torturano e rubano come quelli di Daesh.
Anche se lo fanno con qualche accorgimento ipocrita come non usare la
videocamera e non proclamare ipotetiche avanzate verso Roma. Ma le loro
finalità sono identiche a quelle del califfato. E i militanti delle
diverse formazioni jihadiste, pur divise da rivalità talvolta anche
accese, sono interscambiabili. Lo si è potuto notare nell’aprile scorso
quando l’Isis ha riconquistato Yarmouk (a otto chilometri da Damasco)
precedentemente caduta nelle mani di Al Nusra. Finita la battaglia, i
qaedisti sconfitti non hanno avuto esitazione a farsi riassorbire
dall’esercito combattente di al Baghdadi.
Sono ormai molti anni
che gli Stati Uniti e con loro l’Europa commettono gravi errori tattici e
strategici in quest’area geografica. Già ai tempi di Gorge W. Bush, poi
praticamente nel corso dell’intera amministrazione Obama. In modo più
accentuato dopo le rivoluzioni arabe del 2011. La politica americana
delle alleanze è stata a tal punto sgangherata da consentire a Putin di
metterne in campo una che è parsa fin dall’inizio più coerente e
soprattutto solida. Perno di questa politica russa è stato il principio
dei due tempi: prima si dovrà sconfiggere l’Isis, in un secondo tempo
decidere della sorte di Assad. Come nel 1944 quando gli alleati imposero
al diviso fronte antifascista italiano di anteporre la guerra a nazisti
e fascisti e rimandare a tempi successivi le decisioni sulla dinastia
sabauda.
A volte, come è oggi in Siria, le cose possono essere
ancora più complicate. Durante la Seconda guerra mondiale, in quella che
sarebbe stata la Jugoslavia, il primo a dar vita ad una resistenza
cetnica contro le truppe hitleriane fu il quarantottenne serbo Dragoljub
«Draza» Mihailovic, fedelissimo del re Pietro II in esilio a Londra.
Con l’appoggio degli inglesi, nel maggio del 1941 Mihailovic affrontò i
nazisti sull’altopiano di Ravna Gora e riuscì a resistere. In seguito si
mossero i comunisti di Tito, meglio organizzati talché presto presero
il sopravvento sui monarchici di «Draza» e si scontrarono con essi.
Mihailovic continuò a battersi contro i tedeschi ma, logorato dagli
ustascia croati di Ante Pavelic, ritenne di stringere accordi con
l’esercito italiano. Tito ne approfittò per chiederne l’esautoramento e
Winston Churchill faticò non poco a convincere Pietro II a
concederglielo. Così gli alleati lo lasciarono solo, anche se ancora nel
luglio del ’44 andò a raggiungerlo e a confortarlo il colonnello
americano McDowell. Però, dopo che la penisola fu liberata da Tito e
dall’Armata rossa, Mihailovic anziché essere considerato una figura
importante della resistenza (quantomeno quella della prim’ora) fu tratto
in arresto e, nel 1946, fu fucilato. Al processo tenne un comportamento
fiero, e dopo la morte fu insignito di riconoscimenti dal presidente
americano Truman e da quello francese de Gaulle. Nel maggio del 2015 è
stato riabilitato con tutti gli onori da una sentenza della Corte
suprema serba. Eppure, in sede di giudizio storico, nessuno ritiene che
l’anticomunista Winston Churchill abbia sbagliato allora a «scegliere»
Tito. Quando le guerre si allungano e si complicano viene sempre il
momento in cui — se si vuole imprimere una svolta all’azione così da
ottenere in tempi ragionevoli il risultato che si persegue — si deve
avere il coraggio di rivedere le proprie scelte precedenti. In Siria non
ci sono personaggi paragonabili a Tito o a Mihailovic, ma è da tempo
evidente che non si può pensare di combattere l’Isis con una qualche
efficacia e nel contempo cercare di far cadere Assad, per giunta in
combutta con formazioni qaediste. La «tregua di Aleppo» passerà alla
storia — speriamo — non solo per gli aiuti che giungeranno ai superstiti
di quella città, ma per quella che ne è l’essenza politica. Kerry,
annunciando l’approvazione statunitense a futuri raid degli aerei di
Assad contro gli jihadisti ha di fatto capovolto quella che fin qui
(diciamo fino ad alcuni mesi fa) era stata la politica obamiana. Una
politica che, non dimentichiamolo, nell’estate del 2013 era stata sul
punto di trascinare l’America in guerra contro Assad. Se l’armistizio
funzionerà e saprà superare i prevedibili sabotaggi dei gruppi ribelli,
dalla pausa di questi giorni potrebbe nascere un’intesa tra Russia e
America in grado di restituire stabilità a quell’area. Ci vorrà del
tempo, certo, ma per la prima volta dopo anni si ha qualcosa in cui
sperare.